Apre a Bergamo un centro di degenza per pazienti guariti da Covid-19

Grazie a Cbm e Fondazione Insieme con Humanitas, 90 persone dimesse da uno degli ospedali del territorio bergamasco trascorreranno la quarantena nell’hotel Bes di Mozzo. Le testimonianze di infermieri e pazienti

Apre a Bergamo un centro di degenza per pazienti guariti da Covid-19

Una struttura alberghiera convertita per assistere le persone più fragili, soprattutto anziane, guarite da covid-19 ma ancora positive. A Bergamo, una delle province italiane più colpite dalla pandemia, l’organizzazione umanitaria Cbm sta contribuendo ad allestire un centro di degenza per la quarantena, in collaborazione con Fondazione Insieme con Humanitas. Nell’hotel Bes di Mozzo 90 persone, dimesse da uno degli ospedali del territorio bergamasco, faranno un percorso di degenza gratuito della durata di almeno 14 giorni. Si tratta di persone che non possono trascorrere il periodo di convalescenza nella propria abitazione perché hanno un familiare immunodepresso, anziano o fragile con cui non possono convivere mantenendo le adeguate distanze. Si tratta, in particolare, di persone fragili perché vivono sole o perché hanno bisogno di monitorare i parametri sanitari e non sono in grado di farlo autonomamente.

“Se all'inizio della pandemia la necessità era quella di creare posti letto - creati all'occorrenza in sale operatorie, corridoi e sale risveglio -, ora l'esigenza fondamentale è quella di liberare posti letto per accogliere nuovi malati acuti. La malattia covid-19 è una malattia lunga, che necessita di assistenza non solo nella prima fase, quella acuta, ma anche nella sua cronicità. Tre sono gli elementi fondamentali che può garantire un hospice care: liberare posti letto, assistere adeguatamente il paziente in dimissioni ed evitare l'ulteriore diffusione del contagio” ha dichiarato Mario Romano, direttore del dipartimento di oftalmologia presso l’Humanitas Gavazzeni/Castelli di Bergamo.

Oltre all’allestimento, il progetto prevede l’erogazione di diversi servizi tra cui la sorveglianza sanitaria (resa possibile grazie alla presenza di medici, infermieri e operatori socio-sanitari) la logistica accessoria (pasti, attività di pulizia e rifacimento letti) e il supporto psicologico a distanza. “Il nostro compito principale in questi giorni è di controllare i parametri vitali di salute dei pazienti e di monitorare che la situazione sia stabile e che tale rimanga – racconta Angela, un’infermiera che opera all’interno dell’hotel Bes di Mozzo –. La necessità che avvertiamo è legata all’aspetto emotivo: fin da subito i pazienti hanno avuto bisogno di riavere un contatto umano. I primi giorni erano dei fiumi in piena: avevano necessità di parlare, di esternare le loro emozioni, il vissuto in ospedale, la sofferenza e la paura avuta di poter morire”.

“Ora all’interno dell’hotel sono abbastanza tranquilli e sereni. Tutti loro vogliono tornare alla normalità e a casa – prosegue Angela –. Se i primi giorni la priorità era quella di avere un contatto umano, adesso è quella di fare il tampone. Mi dicono sempre: ‘Quando mi fai il tampone?’. È la tappa che occorre per mettere la parola fine a questa disavventura. Un altro aspetto che li caratterizza è l’essere riconoscenti in maniera esagerata. Ci dicono continuamente grazie, una signora ci ha addirittura scritto una lettera: leggerla è stato emozionante. Ci definiscono angeli e si sentono fortunati ad averci. Tutto questo calore umano ti ripaga degli sforzi e dei turni pesanti. Anche se stanca, a volte resto volentieri e non sento la necessità di tornare a casa proprio perché c’è un obiettivo più grande: la cura dell’altro. Quando vedi un paziente dimesso provi una forte emozione, non solo come infermiera, ma anche come persona. Sei felice perché sai che può tornare a casa e stare con i propri cari dopo tutto questo tempo. Fino a ora si sono solo sentiti per telefono: è bello sapere che potranno riabbracciarsi”.

Raffaello è uno di quei pazienti che, una volta dimesso, non è potuto tornare a casa perché l’abitazione non permette le giuste distanze con la moglie e il figlio. La mattina del 21 marzo si è svegliato con la febbre. “Il mio obiettivo immediato è stato tutelare la mia famiglia, mia moglie e il mio bambino di solo 17 mesi, e sono andato in un appartamento sotto al mio, in una situazione precaria. Quando mia moglie usciva in giardino con il bambino io non riuscivo ad avvicinarmi alla finestra per paura di poterli contagiare”. In questo appartamento resiste per circa 15 giorni: “Avevo delle apnee molto forti e ho avuto la sensazione che la morte mi venisse a trovare, per poi andare via”. Il 31 marzo, quando la situazione diventa più critica, Raffaello viene ricoverato in pronto soccorso e lì si affida ai medici e alle loro cure: “Era l’unica carta che mi restava. Mi mancava il respiro e speravo in parole buone e rassicuranti. In quel momento ti rendi conto che sei solo un uomo, non siamo onnipotenti, proviamo emozioni e abbiamo bisogno di respirare”.

“Quando mi è stato detto che mi avrebbero trasferito in hotel mi sono posto molte domande – aggiunge –. Mi chiedevo come sarebbe stato, se sarei stato protetto. Quando sono arrivato la prima persona che ho incontrato è stato un mio amico che lavora qui ed è stato subito come essere a casa. In hotel abbiamo una stanza singola, un bagno, la certezza che non vi sia contaminazione. Una condizione che rispetta me e la mia famiglia. Io sono in attesa dei tamponi, ma nello stesso tempo preservo la salute dei miei cari: è un regalo incredibile. Gli operatori qui presenti hanno uno spirito fresco e la voglia di iniziare un viaggio nuovo”.

Antonella Patete

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)