Carceri, Covid-19 e comunità: “Lo scopo risocializzante della pena? Compromesso dalla pandemia”

A un anno dalle proteste che hanno sconvolto le carceri, il seminario organizzato dalla Papa Giovanni XXIII racconta la situazione degli istituti penitenziari italiani nell'emergenza sanitaria: i laboratori e le attività sportive sono limitate, mancano educatori, il problema del sovraffollamento persiste. “Abbiamo bisogno di una politica strutturata"

Carceri, Covid-19 e comunità: “Lo scopo risocializzante della pena? Compromesso dalla pandemia”

“Con l’arrivo della pandemia, sono emersi tanti dei paradossi del sistema carcere: come distanziarsi in luoghi sovraffollati? Come chiedere ai detenuti di usare il gel disinfettante e le mascherine, quando i servizi igienici sono inadeguati? A distanza di un anno, la situazione all’interno degli istituti non è migliorata. È stata fatta un’altra scelta: quella di un maggior impiego delle misure alternative”. Così Marcello Marighelli, Garante dell'Emilia-Romagna delle persone private della libertà personale, commenta l’andamento di questo ultimo anno intervenendo al seminario Carceri, covid-19 e comunità, promosso dalla Papa Giovanni XXIII per approfondire la situazione degli istituti penitenziari italiani nel periodo dell'emergenza sanitaria.

Al 31 dicembre 2019, il numero di detenuti in Emilia-Romagna era di 3.834 unità, diminuite a 3.139 un anno dopo. Eppure, afferma Maringhelli, il problema del sovraffollamento non è migliorato, visto che il carcere di Modena è ancora in fase di ristrutturazione (e dunque non è al massimo della sua capienza) dopo le distruzioni avvenute durante le proteste della scorsa primavera. “Emergenza è una parola ricorrente ormai da un anno, ma già da prima non era un termine sconosciuto nel discorso sulle carceri – continua –. Le carceri oggi sono un simbolo dell’affollamento nell’affollamento, dell’emergenza nell’emergenza: sono ancora un ambiente chiuso alla presenza della comunità esterna, i laboratori e le attività sportive sono limitate, mancano educatori. Lo scopo risocializzante della pena è compromesso dall’emergenza Covid”. E rispetto alle misure alternative, Marighelli non ha dubbi: “La detenzione presso il domicilio può funzionare come pena sostitutiva solo per chi il domicilio ce l’ha. Ma chi ha passato tanti anni in carcere ed è sradicato rispetto al suo contesto, magari perché è straniero, o ha problemi di salute, ha bisogno di un’accoglienza e del sostegno di una comunità”.

Stop ai colloqui, scarsità di dispositivi di sicurezza, pochi tamponi: la gestione dell’emergenza sanitaria nelle carceri è stata quindi molto complessa e spesso è stata oggetto di dibattito pubblico. “L’amministrazione penitenziaria spesso viene additata come causa di tutti i problemi – afferma Riccardo Turrini Vita, direttore generale della formazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria –. È vero che noi eroghiamo una serie di servizi, ma siamo vincolati dalle possibilità del bilancio e dalla reale opportunità di realizzare alcune attività.
Quello che manca è una programmazione generale a livello centrale. Ad esempio, nella pandemia è stata chiara la necessità di un ripensamento dell’intervento sanitario in carcere: non abbiamo più una sanità penitenziaria e la situazione è diversa da Asl a Asl. Manca quella omogeneità di intervento necessaria per lavorare in modo efficace”.

Sulla necessità di far tornare il tema carcere al centro dell’agenda politica interviene anche l’onorevole Alfredo Bazoli, membro della commissione Giustizia della Camera dei deputati. “All’inizio della pandemia abbiamo cercato di fare un lavoro per deflazionare le presenze interne, perché il tema del distanziamento era decisivo per evitare che il contagio creasse danni irreversibili e incalcolabili alla popolazione penitenziaria – spiega –. Ma non possiamo accontentarci di gestire l’emergenza, abbiamo bisogno di una politica strutturata, che metta al centro la riforma dell’ordinamento penitenziario. È un lavoro che è stato avviato nel 2015 con gli Stati generali sull’esecuzione penale, ma che è rimasto incompleto, in particolare per quanto riguarda la parte sulle misure alternative. Questo è un tema chiave: un sistema di esecuzione penale moderno è un fattore decisivo per il recupero dei detenuti, ma anche per la sicurezza della comunità, perché quanto più sono diffuse le misure alternative alla detenzione, tanto più c’è minor incidenza della recidiva. Oltre a questo, ci stiamo occupando anche della condizione delle detenute madri in carcere, supportando lo sviluppo delle case famiglia in luogo delle Icam (istituti a custodia attenuata per detenute madri, ndr), che non garantiscono gli stessi diritti, in particolare ai minori”.

Per alleggerire la pressione sulle carceri, quindi, nell’ultimo anno è stata estesa l’applicazione delle misure alternative: al 17 marzo 2020, in Italia erano detenute 60.176 persone, oggi scese a 53.630. Sull’importanza delle pene alternative si esprime Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, che di comunità di accoglienza per detenuti ne gestisce varie: “Le pene alternative danno una risposta valida, che è risultata ancora più chiara in questa pandemia – afferma –. L’uomo ha bisogno di relazioni, che si devono sviluppare in un contesto comunitario: è la comunità il luogo dove anche coloro che sbagliano possono essere accompagnati e recuperati con nuove proposte di percorso”. Tra gli ospiti delle case della Papa Giovanni XXIII c’è anche Demis, che racconta: “Ho passato 23 anni in carcere, ho commesso due omicidi e parecchie rapine. Avevo 15 anni quando ho perso i genitori, mia mamma è stata uccisa: da lì ho cominciato a fare macelli per tutta Venezia. Ora mi trovo in comunità, cercando di rimediare agli errori che ho fatto: è dura, le ferite sono tante, ma ho capito che nella vita ci sono persone che ti possono aiutare a cambiare”.

Dare una seconda possibilità, quindi, vedendo l’uomo e non il suo reato: “Nessuno è privato della dignità umana, neanche in carcere: la dignità è una dote intangibile, che appartiene all’uomo in quanto uomo, alla donna in quanto donna – spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone –. La dignità deve quindi funzionare come limite al potere di punire. Ci vuole cautela nell’esercizio di questo potere: non è nella severità che si costruisce una società più giusta o con meno delitti. Questo è anche empiricamente confermato: basta vedere gli Stati Uniti, dove ancora esiste la pena di morte, che però non ha minimamente prodotto l’efficacia deterrente sperata, visto che il tasso di omicidi rimane altissimo”. Una pena che non dà alcuna speranza di ritorno in società, insomma, crea sfiducia: “La parola reversibilità è una parola chiave, presente tra l’altro nella nostra Costituzione: la possibilità di rivedere la propria storia e costruirsi un percorso di reintegrazione sociale è cruciale – conclude Gonnella –. A ciò va aggiunta la razionalità della decisione: non può vincere chi urla più forte e chi parla con la pancia. La missione del giurista è quella di tenere la barra e non farsi influenzare dalle istanze populiste che dicono ‘deve marcire in galera’ o ‘va buttata la chiave’. Il giurista deve avere una visione razionale della pena”.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)