Chiara, Marta e Beatrice, l’arte di vivere al femminile

Dal lavoro alla maternità: storie di donne, disabilità e diritti nell'inchiesta di Superabile Inail. La loro è una battaglia fatta di corpo, cuore e anima, capace di essere un esempio per tutti, non solo per chi vive con disagio e difficoltà la propria condizione. Perché, in fondo, basta sapersi accettare 

Chiara, Marta e Beatrice, l’arte di vivere al femminile

L’importante è puntare sulle proprie risorse. "Non so se sia una casualità, una questione di fortuna o la bravura di chi mi ha cresciuta, ma di difficoltà serie, nella vita, non ne ho mai incontrate. Alcuni problemi sì, certo, ma come tutti d’altronde". E gli intoppi che deve risolvere più spesso sono quelli di tipo organizzativo. Chiara Magaddino, classe 1991, lavora per i servizi sociali del Comune di Napoli, dove si occupa di reddito di cittadinanza. Inoltre è la delegata regionale per la Campania dell’associazione Famiglie Sma, la onlus di riferimento per la sua patologia: l’atrofia muscolare spinale, con una diagnosi ottenuta intorno ai due anni.

In passato ha fatto volontariato all’Ospedale Santobono-Pausilipon, fornendo supporto psicologico, per le nuove diagnosi di Sma, ai genitori alle prese con la scoperta di questa malattia nei loro piccoli, e ogni tanto collabora con il Centro clinico Nemo – attraverso la Fondazione Serenza – facendo soprattutto da cuscinetto tra i pazienti e il personale sanitario e gestendo le attività ludico ricreative e gli eventi (ora fermi a causa del covid). "La mia figura nasce per offrire un sostegno concreto e vissuto, poiché racchiude in sé competenze professionali e personali allo stesso tempo, visto che vivo in prima persona la disabilità, la carrozzina e l’atrofia muscolare spinale". Laureata in psicologia, ora frequenta un dottorato di ricerca in neuroscienze cognitive presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, in partnership con l’Università di Edimburgo. Inoltre le piace viaggiare e scrivere. Una quotidianità super-impegnata, che lascia poco spazio al tempo libero.

"Bisogna puntare sulle proprie risorse e sui propri punti di forza per trovare il proprio posto nel mondo. Io, per esempio, sono una persona di carattere: so cosa voglio, a cosa ambisco e non mi lascio guidare facilmente, anche se questo può essere un’arma a doppio taglio. Ho bisogno degli altri, ma non dipendo dagli altri nelle mie scelte e non mi sento in uno status di minus. L’immagine passiva della persona con disabilità non mi appartiene, non è la mia, anche perché la relazione con gli altri dipende moltissimo da come tu stessa la imposti". Una donna determinata Chiara, ma anche allegra e sorridente. La determinazione, però, un po’ la si ha fin da bambini e un po’ la si acquisisce strada facendo. "Non sempre è stato tutto positivo, i momenti difficili ci sono stati, eccome, così come pure le cadute. Ma imparare a rialzarsi è frutto dell’accettazione delle proprie fragilità e di una consapevolezza maturata piano piano, nel corso degli anni".

"Mi attraggono i rumori, gli odori e le voci"

Beatrice è appassionata di fotografia fin da quando era piccola. La sua prima mostra, Foto mai viste, risale al 2013, e all’epoca aveva appena dieci anni. Una raccolta di immagini proposte da un’insolita protagonista, una ragazzina non vedente, capace di far vedere al mondo che, oltre alle forme e ai colori, c’è molto di più. «Sono i rumori, i suoni, gli odori e le voci ad attrarre me e il mio obiettivo quando scatto», racconta. Una passione nata durante l’ultimo anno delle elementari. Chiese in regalo una macchina fotografica ai suoi genitori, ma loro la ritennero una richiesta strana per cui non la assecondarono. Allora la chiese ai suoi compagni di scuola per il suo compleanno: desiderio esaudito. Le regalarono una “scatoletta” digitale, non professionale, ma per iniziare andava più che bene. Cominciò così a scattare foto quando andava in giro, incuriosita non certo da quello che vedeva ma da quello che sentiva, chiedendo poi a mamma e papà di descrivere quanto immortalato. Solo con l’udito «riusciva a cogliere momenti particolarissimi che neanche noi avremmo mai pensato», racconta la madre.

Oggi Beatrice Filippini è una loquace studentessa di 18 anni che frequenta il liceo linguistico “Veronica Gambara” di Brescia e fa nuoto paralimpico a livello agonistico. "Mi piace molto la piscina, ma adoro anche il mare, perché l’acqua mi rilassa e mi fa sentire più libera - dice - E mi piace anche fare teatro con l’associazione Bambini in Braille – di cui fa parte sua madre e che si occupa soprattutto di linguaggi non convenzionali legati all’arte, alla musica, alla danza e alla creatività, ndr – e non vedo l’ora di partecipare alla web radio della mia scuola». La sua è l’età della spensieratezza e della leggerezza nonostante sia la maggiore di tre fratelli, con cui però assicura di non litigare mai (o quasi). E sarà per il fatto di essere una gran chiacchierona, o per puro caso, ma finora è andato tutto bene. «Non ho mai avuto difficoltà di relazione, i miei compagni di classe hanno sempre capito le mie difficoltà e mi sono sempre trovata bene a scuola. Uso il pc con la barra Braille per studiare e la sintesi vocale quando utilizzo il cellulare».

Forse le piacerebbe godere di un po’ più di autonomia: "Mio padre e mia madre mi accompagnano dappertutto, anche se a volte vorrei prendere gli autobus e i taxi da sola. Ma non saprei davvero come fare, visto che sono anche in carrozzina". Tempo fa i suoi genitori hanno dato vita a “Bea Project”, un progetto nato con l’obiettivo di realizzare applicazioni e soluzioni che rendano più semplice la vita a chi ha limitazioni fisiche o sensoriali. Oggi quell’iniziativa è ferma, perché stanno cercando di capire quale futuro riservargli. E nel futuro di Beatrice invece cosa c’è? «Dopo il diploma penso di iscrivermi alla facoltà di Lingue: mi piacerebbe diventare insegnante di spagnolo, è il mio sogno. Al momento lo studio occupa buona parte delle mie giornate, ma quando sarò all’università conto di organizzarmi meglio per intensificare gli allenamenti di nuoto, continuare a portare avanti il teatro e magari aggiungere altri nuovi corsi».

"Mi credevo finita, invece sarò mamma"

"All’inizio è difficilissimo accettare una condizione che limita di molto. Detto questo, devi decidere come vuoi vivere il resto della vita che ti rimane davanti. Dipende da noi il modo in cui accettare una tragedia. Dopo l’incidente stradale, io credevo che la mia esistenza fosse finita: credevo niente più sport e soprattutto niente più pallavolo. Poi, inizi a vedere altre persone che sono più o meno nella tua stessa condizione e che ce la fanno". Anche Marta Nocent ce l’ha fatta. Nata nel 1986 a Marostica, vicino Vicenza, ma padovana da sempre, ha proseguito gli studi in odontoiatria, si è laureata, ha aperto il suo studio dentistico a dispetto della carrozzina e a giugno diventerà mamma. Negli ultimi due mesi di riabilitazione all’Ospedale Niguarda di Milano ha provato tanti sport, tra cui la scherma: è stato amore alla prima stoccata. Entrata nella Nazionale paralimpica, ha portato a casa la medaglia d’argento nella gara a squadre di sciabola femminile ai Mondiali di Roma del 2017 e fino all’anno scorso è stata campionessa italiana di sciabola. Poi si è fermata per via della gravidanza. "In questi anni conciliare il lavoro con gli allenamenti è stato abbastanza complesso, ma non mi lamento".

Nel mentre non si è fatta mancare tanti viaggi – negli Stati Uniti, in India, Vietnam, Cambogia e Kenya – e nemmeno un’esperienza di volontariato medico sanitario in Burundi all’interno di una missione gestita da alcune suore di Chioggia. «Ho sempre sognato di poter conciliare la mia professione con i viaggi. Una volta verificato che l’alloggio era accessibile e vicino all’ospedale, sono partita con una mia collega e il mio ragazzo. Mi sono dovuta adattare un po’, ma quasi tutto è fattibile. Abbiamo curato carie, estratto denti e fatto formazione pratica a un giovane odontoiatra del luogo che ora lavora lì in pianta stabile».

Una donna tenace Marta, che però non nasconde le difficoltà incontrate nella quotidianità e il grande aiuto ricevuto per ripartire dopo l’incidente. "La mia famiglia è stata una roccia delle dimensioni di una montagna, i miei amici sono stati incredibili con quegli aperitivi domenicali lì nella sala d’attesa dell’ospedale di Vicenza, i miei compagni di corso mi hanno sempre portato gli appunti delle lezioni e spesso si sono fermati a studiare con me: tutte ragioni per cui svegliarsi la mattina. Anche Ever, il mio cagnone nero, è stato fondamentale. Oggi, che ho fatto della mia autonomia un punto fermo, incontro ancora spesso barriere architettoniche e poca attenzione da parte della gente nei parcheggi riservati alle persone disabili. Ma se trovo un gradino, non faccio la timida e chiedo aiuto al primo che passa». Sul lavoro, invece, tutto bene. «Sono una dentista privata, per cui i miei pazienti non capitano da me per caso ma mi scelgono. Forse sono brava o forse la carrozzina genera una maggiore empatia. Comunque ho imparato a lavorare abbassando la poltrona del paziente alla mia altezza e, in fondo, la maggior parte dei dentisti lavora da seduto».

A volte, però, ha incontrato qualche pregiudizio, magari inconsapevole. "Per esempio, quando ero all’università, la direttrice del mio dipartimento, che mi ha aiutata tantissimo nel mio percorso di studi dal punto di vista dell’accessibilità delle aule e dei parcheggi, una volta laureata mi ha detto: “Ora ti darai all’insegnamento, immagino”. Non aveva proprio preso in considerazione l’idea che potessi fare la dentista nonostante la carrozzina. Anche quando ho deciso di specializzarmi ulteriormente il responsabile del mio secondo master universitario mi aveva chiesto se ero sicura di quella scelta. Ha finito con l’affidarmi un sacco di interventi chirurgici". E alla domanda se è felice, Marta risponde così: «Beh, la maggior parte dei giorni direi di sì. Poi ci sono alcuni momenti in cui l’ombra del “come sarebbe stato” aleggia su di me e fa calare un velo di tristezza. Ma subito realizzo che, carrozzina o no, nessuno ha una vita perfetta e allora capisco che ho raggiunto il mio obiettivo: ossia vivere una vita normale».

(L’inchiesta è tratta dal numero di SuperAbile INAIL di marzo, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)