“Con te di giorno, con mamma di notte”: affido diurno per ogni bambino in carcere

Carla Forcolin, presidente dell'associazione La Gabbianella, da oltre 15 anni si occupa dei bambini che vivono in carcere con le mamme detenute. “Nella riforma della legge 62/11, diventi obbligatorio l'accompagnamento diurno all'esterno da parte di volontari”. In carcere fino a sei anni? “Sono contraria”

“Con te di giorno, con mamma di notte”: affido diurno per ogni bambino in carcere

“Uscire dal carcere a sei anni” è un trauma e una ferita, soprattutto se, fino a quel momento, non si è usciti quasi mai e il mondo fuori è estraneo e sconosciuto, perfino minaccioso. Ma è quanto prevede la legge 62/2011 sulle detenute madri, che con l’intenzione di far uscire i bambini dagli Istituti di pena femminili promuovendo quattro Istituti a custodia attenuata per madri (Icam), di fatto ha raddoppiato il tempo di permanenza dei bambini nelle carceri. E' quanto denuncia con forma Carla Forcolin, presidente dell'associazione La Gabbianella, che per oltre 15 anni si è occupata di questi bambini e si prende cura di loro, favorendone le esperienze formative, culturali, di svago e di socializzazione all'esterno degli istituti. “Uscire dal carcere a sei anni” è il libro, da poco pubblicato (Franco Angeli, 2020), in cui affronta il tema dei piccoli 'detenuti' insieme alle mamme e racconta, tra l'altro, la drammatica storia di un bambino che è stato prelevato dal carcere in cui viveva con la mamma, proprio nel giorno in cui festeggiava il suo sesto compleanno, per essere trasferito presso una famiglia affidataria. “E' stato un trauma – ci racconta Forcolin – perché quel bambino non era stato preparato. Un trauma anche per il fratellino più piccolo, che mi ha raccontato: 'Hanno rubato mio fratello'. E' successo nell'autunno del 2019: poco dopo, è arrivato il lockdown, che quel fratellino, rimasto in carcere, ha trascorso sempre lì dentro, con la mamma, completamente isolato”.

La “persona solidale”, un obbligo che non c'è

Ecco cosa può significare, crescere in carcere. Ma non dovrebbe essere così: “Per 16 anni il nostro impegno, come associazione, è quello di fare in modo che i bambini trascorressero fuori dal carcere la maggior parte della giornata. Ma questo dovrebbe diventare obbligatorio: e la riforma della legge 62 potrebbe essere l'occasione per garantire questo diritto, che non si può delegare al buon cuore dei volontari”.

In questo senso, anche l'affidamento familiare può essere una preziosa opportunità: “Ma non chiamiamolo affidamento – chiede Forcolin, che ha una connotazione spaventosa per tanti, anche per le mamme detenute, che hanno paura di perdere i figli. Chiamiamolo 'accompagnamento esterno solidale', per esempio: un servizio che assicuri al bambino di crescere non dentro, ma fuori dal carcere, pur rimanendo a vivere insieme alla mamma. Come mi ha suggerito uno dei gemellini che ho avuto in affidamento per oltre un anno, 'con te di giorno, con mamma di notte': questo è l'ideale. Ed è anche facile da realizzare”.

Per questo, secondo Forcolin, “uno degli ambiti in cui l’istituto dell’affidamento potrebbe essere utilizzato con grande vantaggio dei bambini è quello carcerario. Quando una madre detenuta ha davanti a sé un periodo lungo di pena da scontare e i magistrati di sorveglianza non ritengono opportuno farla uscire per andare in casa-famiglia o agli arresti domiciliari, quale dev’essere la vita dei figli? Stare dentro il carcere, magari in un Istituto a custodia attenuata fino a 10 anni, vivendo in simbiosi con la madre, senza acquisire mai una vera autonomia, uscendovi solo se qualche volontario viene a prenderli per una passeggiata, perdendo tutte le opportunità di sviluppo intellettivo, sociale, culturale, che la vita potrebbe dare loro? Fino ad oggi non è scritto da nessuna parte che i bambini che vanno in carcere hanno diritto a frequentare la scuola materna e quindi ad esservi accompagnati – osserva ancora Forcolin - La scuola materna non è ancora dell’obbligo. Ma anche se la stessa fosse garantita, i figli delle donne detenute non hanno diritto a divertirsi nei giorni di festa e di vacanza come tutti gli altri bambini e, così facendo, ad imparare a conoscere il mondo esterno? I bambini potrebbero avvalersi di forme di affidamento per imparare mille cose e per stare con i coetanei, senza per questo essere separati dalla madre. Uscire per andare a scuola e poi con il proprio affidatario, o educatore, o persona solidale (come vogliamo chiamare questa figura?), andare al parco o ad imparare qualcosa di bello e divertente. Oppure semplicemente andare a casa della 'persona solidale' con il compagno di scuola preferito e giocare lì insieme, per poi tornare verso sera dalla mamma e raccontarle la propria giornata. La mamma nel frattempo avrà a sua volta studiato e lavorato nella prospettiva di imparare bene un lavoro. Il carcere ha l’obiettivo della rieducazione, non dimentichiamolo”.

Un ponte per l'integrazione. O fuori a tre anni

L'affido diurno, o meglio la “persona solidale”, dovrà avere anche una funzione di “ponte per l'integrazione, non solo per il bambino ma anche per la mamma, che dovrà essere aiutata ad accogliere questa figura come un amico anche per lei, non un affidatario che le ruba il figlio. La cosa è possibile, se viene fatta coinvolgendo la madre e non escludendola – precisa Forcolin - Niente fa meglio ad un bambino di un rapporto individualizzato con una persona cara, che gli permetta di fare tante esperienze ed imparare mille piccole e grandi cose, che lui, a sua volta, può cercare di trasmettere alla mamma”. Un'esperienza che, anziché umiliare la mamma, mettendola di fronte alla sua inadeguatezza, potrà renderla “orgogliosa nel vedere che il proprio figlio ha già imparato a parlare con ricchezza di vocaboli, che sa andare in bicicletta o nuotare, come la mamma non ha mai potuto imparare a fare, che la scuola gliene parla bene. Su questo si deve puntare e, lavorando sulla formazione culturale del bambino, si lavorerà anche sul recupero di sua madre”.

Questa “persona solidale” rappresenterà infine una risorsa preziosa anche una volta che la mamma sarà uscita dal carcere: “Se lei e il figlio non avranno nessuno fuori ad aspettarli, troveranno in questa figura e nella sua famiglia, ma anche nei compagni e negli amici che tramite questa si sono creati, un ponte verso l'integrazione e un supporto verso l'autonomia. Se non riusciamo a garantire questo – conclude Forcolin – allora sarà meglio che torniamo a far uscire i bambini dal carcere a tre anni: la separazione dalla mamma è sempre dolorosa, a tre come a sei anni. Ma crescere in carcere non si può”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)