Covid e beni culturali, “lavoratori siano tutelati e riconosciuti”

A parlare è Michela Montevecchi, senatrice e segretario della VII Commissione permanente dedicata a Istruzione pubblica e beni culturali: “La pandemia ha fatto emergere problemi preesistenti. Urgente intervenire, il patrimonio culturale e paesaggistico guiderà la ripartenza”

Covid e beni culturali, “lavoratori siano tutelati e riconosciuti”

Cinquantacinque siti riconosciuti Patrimonio Mondiale Unesco, più di qualsiasi altro Paese del mondo, dall’Arte rupestre della Val Camonica ai Sassi di Matera, dalle Residenze Sabaude all’Etna. Migliaia e migliaia di uomini e donne che, ogni giorno tutto l’anno, custodiscono e condividono la sterminata bellezza italiana. Poi, però, è arrivata una pandemia che, con una tragica crisi sanitaria, ha portato con sé una crisi economica, sociale e culturale. Come molti altri, anche il mondo della cultura è stato duramente colpito: dai musei ai siti archeologici, dal cinema agli spettacoli dal vivo. Come hanno vissuto – e stanno vivendo – questo periodo di emergenza sanitaria i lavoratori dei beni culturali? L’abbiamo chiesto alla senatrice Michela Montevecchi, segretario della VII Commissione permanente dedicata a Istruzione pubblica e beni culturali. “Con grande sacrificio, come i colleghi di tanti altri comparti. Il mondo della cultura, intesa nella concezione più ampia possibile, è stato duramente colpito. La pandemia ha fatto emergere criticità preesistenti”.

Per esempio?
Sicuramente la mancanza di un sistema di welfare ad hoc. Buona parte delle professioni nell’ambito dei beni culturali aspettano ancora di essere riconosciute, nonostante siano giuridicamente previste e prevedano uno specifico corso di studi. Prendiamo, per esempio, le guide: a fronte di una professione regolamentata, per la quale è necessario sostenere un esame, un riconoscimento vero e proprio non esiste. Di fatto sono costrette a patire la concorrenza di altri tipi di guide che, pur non avendo l’abilitazione, ricoprono comunque quel ruolo. C’è un problema di riconoscimento della professione, un altro di compensi e contratti, quindi di precariato, di meccanismi che obbligano questi professionisti ad adeguarsi a retribuzioni inadeguate.

Come diceva, molti di questi problemi risalgono alla fase pre-Covid.
Sono qui da 7 anni, e da 7 anni mi trovo di fronte gli stessi problemi legati al mancato riconoscimento di alcune professioni, riconoscimento propedeutico all’eliminazione di una distorsione del lavoro, fondata sulla convinzione che alcune professioni possano essere ricoperte, indistintamente, da chiunque. Dequalificazione, scoramento e scoraggiamento sono i sentimenti condivisi anche da chi, pur con la passione, rinuncia a intraprendere un determinato percorso di studi legato ai beni culturali proprio per questo quadro poco entusiasmante. Come un domino, l’effetto è quello di una diminuzione delle opportunità lavorative. Ritengo importante definire contorni meno labili tra professionismo e volontariato. Sia chiaro: il volontariato è un’azione nobilissima, ma c’è il rischio, involontario, di creare un nocumento al riconoscimento di alcune professioni. Molti lavoratori sono a chiamata, dunque sprovvisti di paracaduti previdenziali e assistenziali. Non è facile vivere così. La pandemia ci ha messo di fronte a queste criticità che ora vanno risolte. Come mi sono ritrovata spesso a ripetere, andrà tutto bene se non sarà tutto come prima.

Che ruolo avranno i beni culturali nel rilancio del nostro Paese in chiave ripartenza?
Il nostro patrimonio culturale e paesaggistico – non dimentichiamo che gran parte della nostra bellezza è tale perché incastonata in un contesto naturale che la esalta – è unico. Sempre più spesso, anche a livello europeo, torna il tema dell’importanza di ripartire dal patrimonio culturale di ogni singolo paese, messo in rete – costruendo ponti – con gli altri, magari seguendo le direzioni che la storia ci narra. La comunità internazionale è chiamata a uno sforzo globale, che si regge su due pilastri: quello economico, certo, ma anche quello intangibile, frutto di cultura, tradizioni, abitudini, idiomi, modi d’essere. Ripartiamo dalla ricchezza della nostra italianità, così varia e sfaccettata, così amata e rispettata in tutto il mondo.

La ripartenza non potrà che essere declinata anche in una chiave di sostenibilità. Intanto, i nostri territori e le nostre città d’arte stanno subendo le tragiche conseguenze dei cambiamenti climatici. Come arginare questa parabola?
È proprio questo il tema al centro dei due webinar che ho organizzato pochi giorni fa: ArtEclima e ArteScienza, dedicati proprio al rapporto tra cambiamenti climatici, antichi saperi e nuove tecnologie in difesa del patrimonio culturale. Alcune nostre città d’arte, alcuni borghi, alcune aree costiere stanno pagando un costo salato, sia per l’intensificarsi della frequenza sia per la grande potenza dei cambiamenti climatici in corso anche nel nostro bacino del Mediterraneo. I beni culturali possono ricoprire un ruolo passivo, come contesti da tutelare e salvaguardare attraverso azioni di prevenzione, mitigazione e adattamento, ma anche un ruolo attivo, come fonte d’ispirazione. Ci forniscono, infatti, pratiche di resilienza che, in passato, l’uomo ha messo in campo di fronte a fenomeni avversi. I webinar hanno permesso di approfondire questo doppio binario. Poi, attraverso pillole di approfondimento, entreremo nel dettaglio di tanti singoli aspetti. L’obiettivo finale, ovviamente, è mettere in campo azioni precise: la politica gioca un ruolo cruciale.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)