I volti del “Quarto stato”. La storia del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo

Sulla tela non ci sarebbe più stata una “fiumana di persone”, ma “uomini del lavoro” che fanno della lotta per il diritto universale una lotta di classe.

I volti del “Quarto stato”. La storia del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo

Tre lire di paga al giorno, per dodici giorni. Questo era quello che avevano concordato con il ‘pitur’. Nessuno di loro aveva dovuto mettersi in fila per un’audizione, un casting o un provino. Era stato il ‘pitur’ a sceglierli. Alcuni di loro erano suoi parenti, altri erano amici. Tutta gente che a Volpedo, comune della piana di Alessandria, ci era nata e cresciuta.

Il ‘pitur’ è Giuseppe Pellizza (1868-1907). Siamo nel 1898. Agli inizi di maggio di quell’anno una parte della popolazione di Milano si era ribellata contro il governo. I lavoratori erano scesi in strada – così com’era già avvenuto in altre città italiane – per protestare contro le condizioni di lavoro e l’aumento del prezzo del pane. La risposta del governo era stata dura e sanguinosa. Dopo aver dichiarato lo stato d’assedio della città, i poteri erano passati nelle mani del generale Fiorenzo Bava Beccaris, che non ci pensò su due volte prima di aprire il fuoco sulla folla. Fu un vero e proprio massacro. Vennero sparati 11.164 pallottole e nove colpi di cannone. I dati ufficiali di quelle giornate parlano di 83 morti (81 civili, molti dei quali non avevano neppure preso parte alle proteste, un agente di pubblica sicurezza e un soldato) e oltre 450 feriti.

Le notizie che arrivavano da Milano avevano turbato molto Pellizza, che aveva deciso di riprendere in mano la “Fiumana”, il lavoro che aveva concluso due anni prima e di rifarlo, perché quello che aveva ritratto su quella tela non era più attuale.

Le persone sulla sua tela dovevano essere più realistiche, più ‘vive’. Sulla tela non ci sarebbe più stata una “fiumana di persone”, ma “uomini del lavoro” che fanno della lotta per il diritto universale una lotta di classe. E più realistica e viva doveva essere anche la scena. Decide quindi di non lavorare in studio, ma direttamente nella piazza del paese, piazza Malaspina, dove aveva deciso di ambientare la sua opera.

Giovanni Pellizza li scegli ad uno ad uno, quei volti. Al centro della scena mette tre persone. Per il primo da sinistra, quello con la giacca fatta cadere sulla spalla, prende come modello Giacomo Bidone, al secolo Giacomo Maria Clemente Silvestro, nato a Volpedo nel 1884. Giacomo faceva il falegname. Rimasto vedovo della moglie, si trasferisce a Viguzzolo, per poi emigrare in America, come aveva fatto suo zio.

In primo piano, davanti alla folla che protesta, Pellizza mette anche una donna. Si avvia scalza, tenendo un bambino in braccio. La donna ha i tratti di Teresa Bidone, che Pellizza aveva sposato nel 1892. Divenuta madre di Maria e Nerina, Teresa morì di parto nel 1907 insieme a Pietro, il terzogenito che portava in grembo.

Il bimbo in braccio alla donna si chiamava Luigi Albasini. Oggi, a Volpiano, vive un suo pronipote, Dario.

Tra la folla, con le braccia larghe e le mani aperte c’è Luigi Dolcini. Faceva il contadino. Il nipote di Dolcini ebbe a raccontare, qualche anno fa, che il nonno “non si mise in posa per gli ideali del proletariato, ma perché aveva bisogno delle tre lire al giorno. Lui e Pellizza decisero quella posizione per far vedere bene le mani callose, mani che alla fine della fatica restano sempre vuote”.

A fare da modello per l’uomo accanto a Dolcini è Giuseppe “Pepù” Tedesi, a cui Pellizza si ispira anche per un’altra figura, che pone sul lato opposto del dipinto. Primogenito di una storica famiglia di “stovigliari”, Tedesi era nato a Volpedo il 18 luglio 1883. Straccivendolo e artigiano, realizzava ciotole di terracotta che barattava nelle cascine con pelli di coniglio, da rivendere alla Borsalino, la celebre azienda di Alessandria, produttrice di cappelli. Chissà quanti gentiluomini dell’epoca andavano in giro con i conigli di ‘Pepù’ in testa. Alla destra di Tedesi, l’uomo che dà la mano a un bambino biondo era Lorenzo Roveretti ed era un contadino pieno d’ingegno. Aveva costruito una specie di autobotte con un bidone e una grondaia, e con questa si era conquistato l’appalto per la pulizia delle strade. Quando passava, la gente era solita usare la sua acqua per lavarsi i piedi.

Alle spalle di Tedesi e Roveretti, Pellizza mette un’altra donna. A posare come modella è Emilia Bruno, detta la bionda di Montemarzino, la più bella del paese.

Come modelli Pellizza sceglie anche Costantino Gatti (1849-1925), noto cestaio locale e Maria Albina Bidone, sorella minore della moglie di Pellizza, nata a Volpedo nel 1879 e morta di tisi nel 1907. Accanto a Maria Albina c’è il marito Giovanni Ferrari.

Ma c’è un volto di questo dipinto che tutti riconoscono. Anche quelli che non s’intendono d’arte e che non sanno chi è Giuseppe Pellizza. È quello al centro del quadro. “Un uomo sui 35 anni, fiero, intelligente, lavoratore”, come ebbe a descriverlo lo stesso Pellizza. Cappello in testa, baffi e folta barba scura, con una mano nella cintola dei pantaloni e l’altra che tiene la giacca appoggiata sulla spalla destra. Procede verso l’osservatore con disinvoltura, forte della compattezza del corteo che ha alle spalle. Per questo, che è diventato un volto iconico, Pellizza si ispira a due suoi compaesani, Giovanni Zarri e Giovanni Gatti. Giovanni Zarri, detto ‘Gioanon’, era nato a Volpedo il 3 dicembre 1854. Faceva il falegname. Sposato con Luigina Belloni, ebbe otto figli. Giovanni Gatti, invece, era il farmacista di Volpedo ed era molto amico di Pellizza, col quale spesso si fermava a parlare di socialismo. Gatti era stato un garibaldino e l’aver visto cadere sul campo di battaglia tanti suoi amici, aveva lasciato un segno indelebile sulla sua giovinezza. “Senza i nostri corpi, senza le nostre piccole storie personali che ognuno ha portato in scena su quella piazza – disse Gatti – non sarebbe nata alcuna opera d’arte”.

“Una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali intelligenti, forti, robusti, uniti, s’avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere luogo ov’ella trova equilibrio”. Questo l’obiettivo che Pellizza da Volpedo si era posto nel dare volto – e volti – alla classe operaia, al “Quarto stato”.

Il mastodontico dipinto a olio su tela (545×293 cm), divenuto agli inizi del Novecento icona delle lotte operaie e acquistato, grazie a una sottoscrizione civica, nel 1920 dalla città di Milano per 50.000 lire, è partito mercoledì scorso – dopo essere stato calato da una finestra – con un trasporto speciale dal Museo del Novecento, che puntualmente ha documentato tutto su Fb e Ig.

E il celebre “uomo col cappello” al centro dell’opera di Giuseppe Pellizza da Volpedo, è il protagonista di una suggestiva foto pubblicata sulla sua pagina Fb dal sindaco di Firenze, Dario Nardella. Nel buio della sala, l’”uomo col cappello” è illuminato e fotografato con uno smartphone.

“All’alba di stamani (giovedì 28 aprile, ndr) – scrive Nardella – Firenze ha dato il benvenuto a ‘Il Quarto Stato’, l’enorme capolavoro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, che dal 1° maggio, per la Festa dei lavoratori, sarà visibile nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio”.

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Fonte: Sir