L'antica comunione col tutto. Un libro dell’antropologo gesuita Marcel Jousse ci rivela il fascino di culture arcaiche e del contatto con il cosmo

Un libro che rappresenta un modo diverso di vedere il Cristo, immerso nel suo tempo non ancora imprigionato nelle retoriche della scrittura, ma in una oralità che lo portava a contatto con analfabeti ma anche con dotti e sapienti.

L'antica comunione col tutto. Un libro dell’antropologo gesuita Marcel Jousse ci rivela il fascino di culture arcaiche e del contatto con il cosmo

L’oscillazione, la danza, la ninna nanna, il canto e la parola stessa non sono dimensioni separate, ma imitazione del grande movimento cosmico. La apparente ripetitività e la mimesi dei contadini analfabeti non sono indizi di ignoranza, ma di saggezza originaria, comunione con il tutto, partecipazione e dono stesso della vita e del suo essere profondo: il movimento inesausto. Il grande antropologo, e padre gesuita, Marcel Jousse (1886-1961) non aveva studiato questo “gioco” della vita sui libri, ma direttamente nell’esperienza contadina di genitori analfabeti, e che però nei canti e nei recitativi durante le festività sacre e nelle ninne nanne rivelavano una profonda saggezza che andava al cuore della vita stessa, e tra le popolazioni amerinde, e asiatiche, e nella trasmissione orale dei testi sacri in Palestina.

Grazie alla riedizione -dopo più di quarant’anni- dell’opera-compendio della sua ricerca e delle sue lezioni alla Sorbona, L’antropologia del gesto (Mimesis, 426 pagine, 32 euro), oggi possiamo riassaporare l’antica sensazione di comunione con il creato attraverso uno sguardo diverso sulla cosiddetta ignoranza, o povertà culturale. Decenni di iper-estetismo, di correnti sempre più contrassegnate dalla raffinatezza fine a se stessa, hanno rimosso ma non cancellato il tesoro della cultura orale e contadina e dell’opera stessa di Jousse.

Eppure molti, nel corso degli anni, vi hanno fatto riferimento. Sarebbe difficile pensare ad un’opera apparentemente incomprensibile come i Finnegans Wake di Joyce senza l’apporto della lingua-movimento del gesuita, e infatti sappiamo che lo scrittore irlandese aveva seguito le sue lezioni a Parigi. E non solo: molti studiosi anche italiani hanno sempre tenuto conto di questa ricerca inesausta che pone al suo centro l’uomo non in quanto colto ma come creatura che, fin dal movimento ondulante della ninna nanna materna e di quel canto arcaico, è immerso in una dimensione unitaria e in perpetuo movimento.

Certo, il numero di pagine e il prezzo potrebbero rappresentare un ostacolo, e talvolta il linguaggio joussiano necessita di una sosta e di una lettura dell’apposito glossario, posto avvedutamente in fine libro, ma in questo caso ne vale davvero la pena. Il suo linguaggio non è mai gratuito, ma teso alla comunione con le cose, e quindi oltre i termini colti usali che hanno perso il loro significato profondo. Lo studioso ci porta infatti nella Palestina in cui Rabbi Yeshua rinnovava lo stile formulare della tradizione orale servendosi anche del movimento, del gesto, dei “muscoli viventi”, come li chiama Jousse, che mimano il dondolamento del cosmo stesso.

Un libro che rappresenta un modo diverso di vedere il Cristo, immerso nel suo tempo non ancora imprigionato nelle retoriche della scrittura, ma in una oralità che lo portava a contatto con analfabeti ma anche con dotti e sapienti. Ed è anche un tributo radicale alla figura femminile, quella della propria madre che con il suo “gesto vivente, instancabilmente dondolato” lo ha immerso nell’incessante movimento universale con amore e arcaica consapevolezza, e quella della Vergine, cui si rivolge lo stesso antropologo quando parla del “Elahi-lamma shabaqtani-Elahi” del Cristo morente: “Miriam di Nazareth non ritrovi, in questo dondolamento supremo (il movimento dell’agonia e quello delle parole, Ndr), l’eco delle tue dolci ninne nanne materne?”.

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Fonte: Sir