“L'equilibrista”: quando la malattia divide una coppia. E trasforma un marito in caregiver

Marco Leopardi racconta nel suo libro la sua vicenda autobiografica: la Sla diagnosticata alla moglie poco prima della nascita del figlio sconvolge la vita della famiglia, fino a dividerla. Intervista a Marco e a Sabrina

“L'equilibrista”: quando la malattia divide una coppia. E trasforma un marito in caregiver

La “bestia” ha assalito le loro vite, travolgendole, sconvolgendole e infine dividendole: Marco non ha resistito, ha lasciato Sabrina, 15 anni dopo la diagnosi, arrivata come un tornado poco prima che diventassero mamma e papà di Lorenzo. E' andato via, Marco, dopo 15 anni di “equilibrismo” tra famiglia e malattia, tra cure e amore, dopo una vita trascorsa insieme, per “rifarsi una vita”. Ha continuato a essere padre e, per Sabrina, ha iniziato a essere caregiver: oggi l'assiste tre notti a settimana, facendo i conti, ogni momento, con “quell'enorme senso di colpa che mi perseguita da quando decisi di prendere le distanze da Sabrina e trasferirmi in un’altra casa”. Una storia così forte e drammatica, Marco ha deciso di condividerla, raccontandola in un libro, “L'equilibrista” (Lorusso editore). E' lui, l'equilibrista, in bilico tra l'amore di una vita e il bisogno di rifarsela, una vita: una vita senza malattia, senza l'incombere della morte.

Marco Leopardi, perché raccontare in un libro una vicenda così intima?
In parte per alleggerire il senso di colpa che mi porto addosso: a ventinove anni Sabrina, che avevo sposato dopo un lungo fidanzamento, si ammalò di Sla e dopo circa quindici anni dall’arrivo della bestia me ne andai da casa, per provare a ricostruirmi un pezzo di vita normale. Ora assisto la mia ex moglie tre notti a settimana e le domeniche. Posso dire senza vergogna che seguito a volerle bene, ma amo anche un'altra donna. A parte le questioni sentimentali, però, credo si conosca poco il dietro le quinte dell'assistenza. Non è solo saper fronteggiare tutte le esigenze del malato, ma anche, per esempio, convivere con chi entra in casa tua per aiutarti o per affondarti definitivamente. La decisione di raccontare questa storia viene da lontano, ma complice e decisivo è stato il primo lockdown. La mia vita si è improvvisamente fermata e ho ricominciato a pensare rivolgendo lo sguardo sul passato. Ho trascorso la mia vita professionale da documentarista provando a raccontare storie che aiutassero a riflettere sulle difficoltà della vita e la complessità dell’animo umano. Quando è arrivato il Covid, mentre cercavo su internet qualche spunto per decidere dove volgere la mia attenzione per il prossimo progetto, valutai che io stesso avevo, e stavo vivendo, un’esperienza che forse meritava di essere presa in considerazione. La scrittura di un libro mi è sembrata il mezzo più intimo ed efficace per descrivere questa vicenda, che potrebbe essere riassunta come un invito a non arrendersi mai.

Nel libro parli dei tuoi sensi di colpa. Stai riuscendo a superarli?
Il peso del senso di colpa che mi porto addosso è sempre stato enorme, alto come un grattacielo. Ora che assisto Sabrina regolarmente, che faccio parte del gruppo di persone che le consente una vita dignitosa, ora che riusciamo a volerci bene nonostante tutto, ho ridotto il numero dei piani, ma è ancora un discreto palazzo.

Cosa ha rappresentato la nascita di un figlio, poco tempo dopo la diagnosi?
Lorenzo è nato un anno dopo l’insorgenza della Sla: fin da subito, è stato una formidabile medicina per Sabrina ed è soprattutto a lui che voglio raccontare questa storia. Ho sempre davanti agli occhi il giorno in cui lo presi per mano poco più che bambino per spiegargli che avevo deciso di separarmi dalla mamma. L’avevo portato in cima a una montagna per prendere il coraggio di parlargli. Scrivere questi ricordi è soprattutto il tentativo di restituire a lui la storia dei suoi genitori, che nonostante le tempeste affrontate sono riusciti a non annientare il loro amore.

Sabrina, come hai reagito quando hai ricevuto la diagnosi?
Ho avuto un senso di disperazione e tanta paura del futuro. L’affermazione del dottore, che non esisteva una cura per la Sla, mi annientò. L’idea che da lì a poco, sarebbe nato il nostro pargolo, moltiplicò le mie preoccupazioni all’ennesima potenza e anche quelle di Marco.

Come sei riuscita e riesci ad occuparti di tuo figlio, nonostante la malattia?
Ho fatto di tutto per occuparmi di mio figlio. Appena nato avevo ancora una discreta autonomia e quindi cercavo di accudirlo in tutto, con l’aiuto di una persona: mi piaceva preparare i suoi pasti, imboccarlo, fargli il bagnetto e tutto quello che fa una mamma normale. Quello che non potevo fare, era prenderlo in braccio e, quando piangeva, dovevo per forza sedermi, per poterlo fare. Dopo un paio di anni, in seguito ad un repentino peggioramento, mia mamma si è trasferita da noi. È stata dura accettare l’impossibilità di rispondere fisicamente ai richiami di aiuto di mio figlio e lasciare ad altri questo compito. Ho cercato di sopperire a questo mio limite, con la mia presenza, le mie indicazioni e la mia vicinanza emotiva. Un grande aiuto l’ho ricevuto da mio figlio, che è stato sempre un bambino buono e maturo, come se si rendesse conto delle mie difficoltà. Per fare qualche esempio, quando faceva qualche marachella, veniva vicino a me e diceva: 'Menami!'. Una volta a casa di una amica, che aveva un pianoforte si mise a suonare dicendomi: 'Mamma, canta!'. Il ruolo che le altre mamme acquisiscono naturalmente, per me è stata una conquista lenta e faticosa. Fare in modo che Lorenzo, mi riconoscesse un’autorevolezza e avesse fiducia in me, è stato un percorso impervio. Solo col tempo mio figlio ha potuto apprezzare la mia attenzione nei suoi confronti, insieme a quella del papà, della nonna, della zia, che si sono premurati di colmare le mie limitazioni. Ho cercato di essere presente dal dottore, ai colloqui scolastici, al parco giochi, dovunque fosse possibile pur di occuparmi di lui. Una rete familiare solida e l’aiuto delle mie assistenti che si sono succedute in questi 26 anni, mi hanno permesso di vivere nel modo migliore il mio ruolo di madre. Oggi che Lorenzo è grande ed è lontano, vivo il dramma di non poter comunicare con lui per telefono, allora devo ricorrere alla tecnologia, tramite un computer che mi permette di scrivere i miei pensieri e continuare ad avere un dialogo con lui. Mentre dal vivo è stato, ed è, il mio migliore interprete, in grado di tradurre quello che chiamiamo il “sabrinese”.

Come hai spiegato la malattia a tuo figlio?
Era molto piccolo quando mi chiese se anche lui da grande avrebbe avuto le stesse difficoltà. Lo rassicurai. Credo non ci sia stato bisogno di spiegarglielo. Lorenzo è nato che già avevo problemi deambulatori e di linguaggio, ma lui l’ha sempre vissuta come una situazione quasi normale.

Come hai vissuto la separazione da Marco?
Quando realizzai che Marco aveva un’amica e voleva andare via di casa, mi è mancata la terra sotto i piedi e mi sono sentita totalmente disorientata. La mia famiglia era la cosa a cui tenevo di più, quello per cui restare aggrappati alla vita e vederla sgretolarsi è stato il peggiore fallimento, quello che non avrei mai voluto far vivere a mio figlio né a me stessa. Il senso di tradimento e la delusione mi avrebbero fatto sprofondare nella depressione se non avessi vissuto, tre mesi prima, un’esperienza ancora più forte, il ricovero in rianimazione che aveva cambiato le mie priorità. Se non avessi sfiorato la morte, non sarei sopravvissuta alla separazione, ma la vita è più preziosa di ogni cosa e va vissuta fino in fondo. Sono stati anni durissimi, ma Lorenzo e l’amore della mia famiglia mi hanno aiutato ad uscirne fuori.

Come vivi, oggi, il rapporto con Marco?
Con Marco, dopo i primi mesi, ci siamo riavvicinati anche per la serenità di Lorenzo e ora riusciamo a relazionarci in modo pacifico e questo rende i nostri incontri piacevoli. Credevo che l’amore sarebbe bastato per superare tutte le tempeste, ma non ho considerato il punto di vista di Marco, l’ho dato per scontato. Un grande errore! Aveva bisogno di essere incoraggiato e sostenuto, tanto quanto me. Nonostante la sua scelta, Marco non ha mai smesso di assistermi e volermi bene ed è stato un buon padre di nostro figlio. Anche se il senso di colpa che si trascina per essere andato via di casa, non lo abbandonerà mai, sono convinta che i suoi sentimenti nei miei confronti siano sinceri. Ora è diventato il mio migliore amico, quello su cui puoi sempre contare, l’unico che mi può portare al cinema, ad uno spettacolo o al ristorante autonomamente, perché sa tutto di me, comprese le mie difficoltà. È anche il mio confidente e con lui, condivido le gioie e le preoccupazioni del nostro splendido ragazzo.

Cosa pensi del libro che ha scritto?
Da una parte, mi fa piacere, dall’altra sapere che la mia vita privata è diventata pubblica mi infastidisce. Aldilà della mia percezione personale, penso che il libro rappresenti una testimonianza reale, in cui molte persone, nelle stesse situazioni, si possano rispecchiare.

Cosa chiedi e cosa ti auguri, per il prossimo futuro?
Mi auguro che si trovi una cura a questa brutta malattia. E vorrei restituire il bene ricevuto, facendo volontariato. Nel frattempo spero che le mie condizioni fisiche rimangano invariate, per poter comunicare con la mia voce e respirare con i miei polmoni.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)