La lasagna. Quel regalo sull'uscio di un "positivo" chiuso in casa

“Ma io sto bene…”, pensa l’asintomatico che vede di punto in bianco rivoluzionato il suo presente da quattro vocali e quattro consonanti: po-si-ti-vo.

La lasagna. Quel regalo sull'uscio di un "positivo" chiuso in casa

Lo abbiamo imparato in questi mesi, quello con cui abbiamo a che fare è un virus tanto minuscolo quanto subdolo. Da vigliacco qual è, si accovaccia sull’uscio delle nostre esistenze, pronto ad approfittare del primo momento di distrazione.

Con i più fragili non ha alcuna pietà. Arriva di soppiatto, per poi scatenarsi all’improvviso in tutta la sua perfidia. Ma non usa i guanti bianchi nemmeno con gli altri, i cosiddetti “asintomatici”, quelli che non hanno sintomi fisici tali da essere costretti a letto o, addirittura, ad essere ricoverati in ospedale. Non riuscendoli a colpire nel corpo, li fiacca però nello spirito, intrecciando con i loro nervi un duello psicologico all’ultimo respiro.

Istantanee di queste battaglie le si possono incontrare sui social, che diventano in questi frangenti una finestra aperta su quel mondo che continua a vivere fuori dalla quarantena, con il quale si vorrebbe tanto tornare a intrecciare la propria strada.

È vero, ci sono i cellulari e le videochiamate, ma non basta. Quando il virus trasforma il portoncino di casa nel ponte levatoio di una fortezza circondata da un fossato abitato da leggendari coccodrilli, tutto a poco a poco inizia a stare stretto. Anche quella casa che è il nido a cui tutti aspiriamo di far ritorno dopo un’intensa giornata di corse e di lavoro.

“È stato sottoposto a test antigenico rapido con il seguente esito: Positivo”. La comunicazione via mail è asciutta ed essenziale. Per chi viene raggiunto telefonicamente, il messaggio è ancora più scarno: “Pronto è il/la sig./sig.ra…? Devo comunicarle che da ora lei è in quarantena”. Alla domanda “Ma è per il tampone che ho fatto?”, l’operatore dall’altro capo del telefono risponde gentilmente che non può aggiungere nulla di più per motivi di privacy. Benedetta privacy.

“Ma io sto bene…”, pensa subito l’asintomatico che vede di punto in bianco rivoluzionato il suo presente da quattro vocali e quattro consonanti: po-si-ti-vo. Di fronte a quelle otto lettere, anche il più coriaceo non riesce a trattenere una lacrima. Superato lo shock iniziale, se si condivide lo stesso tetto con qualcun’altro, ci si inizia ad industriare su come isolarsi e utilizzare i luoghi comuni, come la cucina e il bagno. Se si vive da soli, ci si ritrova ben presto espropriati del divano da un’ospite temuta e indesiderata, forse anche più del virus: la solitudine.

Ed inizia l’attesa. Di cosa? Di stare male. Perché seguendo in questi mesi gli innumerevoli interventi di medici e virologi in tv, abbiamo imparato che i sintomi della malattia non si manifestano subito. Ci vuole del tempo. E allora si drizzano le antenne ogni prurito di gola o ogni starnuto provocato, magari, da un granello di polvere di troppo. Al minimo sentore di mal di testa si è pronti a infilare il termometro digitale sotto l’ascella, aspettando impazientemente che con il suo bip-bip avvisi di aver compiuto il suo dovere. Ed ecco il responso: 36,5°. Nell’incertezza si riprova di nuovo. E la seconda volta l’attesa di quella manciata di secondi sembra trasformarsi in un assaggio di eternità.

Si viene presi poi da un’irrefrenabile voglia di mettere il naso fuori di casa – magari quando non c’è in giro nessuno, mascherati e protetti da capo a piedi – per andare a buttare la spazzatura, come in primavera, ai tempi del primo lockdown. Ma non si può. “Bei tempi, quelli…”.

La razionalità incita al coraggio: “Dai, sono solo pochi giorni, passano; ringrazia Dio che stai bene”. Ma la parte irrazionale non si fa attende: “Qui il tempo non passa mai. Non si riconosce più il giorno dalla notte. E se poi mi ammalo?”.

Nell’attesa di negativizzarsi, a ravvivare le giornate di quarantena, arrivano spesso anche i guasti domestici. Perché si sa, piove sempre sul bagnato. A chi è saltato il riscaldamento, a chi si è rotta la lavastoviglie, a chi la lavatrice. Non si può chiamare nessuno “perché sei un essere infetto e manco quelli di Csi ti entrerebbero dentro casa”, e allora ti industri come puoi, rispolverando le tecniche della nonna o trascorrendo qualche ora a caccia di un tutorial su YouTube capace, in una decina di minuti, di trasformati in un discendente di Super Mario, o anche solo di suo fratello Luigi.

Poi, una sera, ecco che fa capolino una voglia di lasagna. Nella consapevolezza di non avere in casa gli ingredienti necessari per cucinarla e – se ci fossero – di non essere proprio dei Masterchef da urlo, si afferra il telefono e se ne ordina una precotta, di quelle che si scaldano nel microonde. Nulla a che spartire con la vera lasagna, quella fatta in casa, col ragù che ha bollito per ore e con la pasta tirata a mano. Basta anche solo qualcosa di molto più semplice, giusto per consentire alle papille gustative – che grazie a Dio, funzionano ancora alla perfezione! – di risvegliare nella memoria il piacere di essere tutti insieme, la domenica, seduti a tavola davanti a un piatto fumante di lasagne appena sfornate.

A conferma che piove sempre sul bagnato però, l’ordine non va a buon fine. Quella che il solerte fattorino lascia sull’uscio di casa è una lasagna vegana. Nulla contro i vegani, sia chiaro, ma converranno anche loro che non è proprio la stessa cosa. Soprattutto quando si aspetta “la” lasagna.

E allora non ce la si fa più. Ci si affaccia dall’unica finestra da cui è consentito entrare in contatto col mondo quando si è in quarantena, e si affida il proprio sconforto ai social. Lo si fa cercando di ironizzare sulle proprie disavventure, perché si è consapevoli di avere la grande fortuna di stare fisicamente bene, cosa che proprio in questo tempo si apprezza e comprende ancor di più. La quarantena ha sviluppato, inoltre, la capacità di neutralizzare la tristezza, impedendole di diventare contagiosa.

Passano le ore, i commenti al post non si fanno attendere: messaggi di incoraggiamento ed emoji si inanellano uno dopo l’altro. Finché non suona il campanello. E sull’uscio di casa, giusto per l’ora di pranzo, si materializza “una super mega coccola culinaria”: una porzione di lasagna fatta in casa. In quel momento, in quella casa è stato Natale. Anche se non era il 25 dicembre e anche se non era mezzanotte. Così, come in questi giorni, è stato ed è Natale tutte le volte che una mano amica lascia, sull’uscio o attaccato alla porta di casa di una persona asintomatica in quarantena, un dolcetto o un sacchettino di biscotti natalizi appena sfornati, o – più semplicemente – un bigliettino ricavato da una pagina di quaderno, alla quale la penna e il cuore affidano una semplice manciata di parole.

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Fonte: Sir