La scuola all'aperto, facendo arte. Con l'aiuto del terzo settore: il progetto “Doors”

Teatro, rap, breakdance, scrittura creativa e arte entrano in classe e portano gli studenti fuori da scuola: è il progetto “A scuola di distanze”, nato dalla collaborazione tra Cies onlus e Istituto Comprensivo Via delle Carine. Un docente: “Fare scuola fuori da scuola si può e si deve fare: un'opportunità per i ragazzi di lavorare in gruppo, nel momento in cui la socialità è in crisi”

La scuola all'aperto, facendo arte. Con l'aiuto del terzo settore: il progetto “Doors”

Fare scuola fuori da scuola: una certa pedagogia lo raccomanda da tempo, ma è diventato un pensiero e un'indicazione ufficiale da quando la pandemia ha messo in crisi il sistema scolastico tradizionale, costringendo i dirigenti a rivedere gli spazi, gli orari e le modalità della didattica. Eppure, la maggior parte degli studenti – quelli che ancora hanno la fortuna di andare fisicamente a scuola – trascorrono le ore seduti al banco, indossando la mascherina, senza la possibilità di uscire dalla classe né di muoversi dal proprio posto. E' una scuola complicata, chiusa e piuttosto “ferma” quella che è ripartita a settembre: tante le difficoltà, poche le risorse.

“Fare scuola fuori da scuola, però, si può e si deve, tanto più in questo momento, in cui i ragazzi sono i più sacrificati”: lo testimonia Enrico Castelli Gattinara, docente presso l'istituto che sta prendendo parte al progetto, di cui è promotore e sostenitore. Un progetto che nasce dalla storica collaborazione tra questa scuola e il Cies, nell'ambito della sperimentazione “Doors”, nata da un partenariato di 28 enti, coordinata da Cies onlus e cofinanziato dall’impresa sociale Con i Bambini, nell'ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile.

“A scuola di distanze”

Quest'anno, il progetto si è adattato alle esigenze dei ragazzi in questo particolare momento storico: il bisogno di muoversi, di ritrovare la “vicinanza”, lavorando in gruppo e fuori dagli spazi scolastici. Si chiama “A scuola di distanze”, ha preso il via a ottobre e coinvolge, per quattro incontri da due ore, quattro classi del secondo e terzo anno. Un percorso di “Arteducazione outdoor”, che propone ai ragazzi il linguaggio del teatro, del rap, della breakdance e della scrittura creativa per esprimere il proprio vissuto, le proprie preoccupazioni, le proprie emozioni, le proprie speranze.

“Il nostro è un programma pensato in un’epoca pre-covid – spiega Elisabetta Melandri, presidente di Cies onlus – ma che oggi diventa ulteriormente strategico. Mira al contrasto della povertà educativa intesa come difficoltà di accesso per tanti, ora molti di più, e va a coinvolgere quella fetta di popolazione scolastica che sperimenta normalmente l’esclusione perché non dispone di strumenti adeguati o a causa di un retroterra culturale non consono".

Il racconto dell'educatore: “con l'arte, i ragazzi ci dicono tanto”

A raccontarci come stanno andando le cose è Adriano Rossi, educatore del Cies coinvolto nel progetto: “Da anni portiamo avanti, con il progetto 'Doors', la metodologia della cosiddetta 'arteducazione', con laboratori artistici inseriti in ambienti scolastici ed educativi in genere. Nelle scuole, questo consisteva, prima del Covid, in incontri all'interno delle scuole: un educatore e un artista andavano in classe proponendo ai ragazzi attività artistiche di diverso genere. Quest'anno, vista la situazione, abbiamo modificato le attività, per renderle fruibili alla scuola anche nell'emergenza sanitaria, con l'idea di riconquistarci uno spazio di confronto rispetto ai cambiamenti degli ultimi mesi. Il percorso si chiama 'Scuole di distanze' e coinvolge, per il momento, quattro classi della Mazzini e, da questa settimana, anche la scuola Pisacane. Stiamo cercando di coinvolgere anche altre scuole, ma non è facile, in questo momento, entrare in contatto con i dirigenti, alle prese con tante difficoltà. Il nostro obiettivo è contrastare la tendenza della scuola di restare un ambiente chiuso, in cui i ragazzi devono stare fermi. Dal punto di vista pratico, quattro operatori entrano a scuola e portano la classe fuori, divisa in quattro gruppi: ci sparpagliamo quindi sul piazzale pedonale adiacente la scuola e ciascun gruppo si dedica, ogni settimana, a una forma espressiva diversa. Attraverso l'arte e gli esercizi che facciamo, tocchiamo anche temi legati alla contingenza e i ragazzi riescono a tirar fuori il proprio vissuto. Vediamo che è uno spazio di cui c'è bisogno: la condivisione, il confronto, il lavoro in gruppo, tutto nel rispetto delle regole. Soprattutto due aspetti ci hanno colpito: da un lato i ragazzi si rendono conto di essersi adattati presto a regole nuove, per cui sembra lontanissimo il periodo in cui potevano fare certe cose; dall'altro lato, hanno la sensazione che questa sia la nuova vita a cui dobbiamo tutti abituarci e non sanno quanto piaccia loro. Emerge poi un livello di frustrazione nel sentirsi additati come colpevoli, ma anche una grande confusione rispetto al virus e alla sua diffusione. In generale, tutti loro preferiscono andare a scuola, piuttosto che restare a casa”.
E' quindi ancora possibile e auspicabile una sinergia tra scuola e terzo settore? “Quello che si può fare è necessario continuare a farlo – afferma Rossi - Occorre consolidare il rapporto tra educazione formale e informale, per affrontare questo momento che pone limitazioni alla didattica ma porta con sé anche una forte esperienza emotiva che i ragazzi stanno affrontando insieme”.

Offrire possibilità ai ragazzi, in cambio delle rinunce

Ne è convinto Enrico Castelli Gattinara, docente dell'istituto e da sempre sostenitore di queste attività all'insegna dell'apertura della scuola al territorio. “Condivido le ragioni, le motivazioni e soprattutto lo scopo educativo e formativo di iniziative come questa – ci dice – a maggior ragione ora che tutta la società è sconvolta da una crisi che pare ingovernabile. I ragazzi la subiscono senza poterne essere attori, ma ne sono forse le vittime più colpite: hanno l'età in cui si affacciano sul mondo, iniziano a costruire loro autonomia, per esempio venendo a scuola da soli. Oggi, nell'affacciarsi sul mondo, lo trovano chiuso, pieno di barriere: non si riconoscono, loro per cui è tanto importante vedersi. Tutto questo universo è stato chiuso davanti ai loro occhi. Sono forse le vittime più grandi e innocenti, perché hanno davanti una barriera che rischia di impedire una crescita armonica. È allora proprio con loro che, come istituzione scolastica, dobbiamo avere un particolare occhio di riguardo e cercare di offrire qualcosa, in cambio delle rinunce a cui sono costretti”.

Ecco allora il valore particolare che il progetto assume proprio quest'anno: “Questa iniziativa permette di nuovo di stare insieme, di lavorare insieme. A scuola i lavori di gruppo sono scomparsi, lo studio in comune non si può fare, né in classe né a casa. E' allora prezioso trovare un'occasione per collaborare, confrontarsi, condividere, esprimersi insieme, soprattutto all'esterno di mura scolastiche che oggi vivono come un carcere. Ed è dovere di noi insegnanti favorire al massimo queste attività. Abbiamo di fronte una società che ignora completamente i bisogni di ragazzi e bambini – osserva Castelli - La scuola deve dare un segnale diverso”.

Il potere inclusivo della sinergia tra scuola e terzo settore

Eppure le scuole, spesso reticenti già prima del Covid nell'aprirsi al territorio e alle proposte delle associazioni, quest'anno sono ancora più arroccate e impenetrabili. “Le difficoltà ci sono, soprattutto perché queste attività richiedono un apparato burocratico farraginoso. Tutto dipende dai dirigenti e dai collegi docenti e dalla loro sensibilità verso queste proposte del terzo settore. Dobbiamo riconoscere che il ministero ha dato indicazioni precise, fin dai mesi scorsi, invitando le scuole ad aprirsi alle collaborazioni di animatori, educatori e realtà associative per attività più aperte rispetto alla mera attività didattica. Molte scuole però non lo accettano e creano difficoltà e ostacoli”. Forse anche il contesto sociale ha un peso: la scuola in cui questo progetto si è radicato è una scuola del centro, con famiglie presenti, sensibili e per lo più disponibili. “Anche questo ha un peso, non si può negare, perché la sensibilità delle famiglie è già orientata in questa direzione: questo facilita, ma non è una condizione indispensabile. Sono convinto che nelle periferie e nei contesti più disagiati sia possibile e anche più necessario svolgere attività come queste. I frutti che si raccolgono sono preziosi: oltre al vantaggio che ne traggono direttamente i ragazzi, si crea anche una forte identità sociale all'interno della scuola stessa, un senso di appartenenza tra ragazzi, docenti e genitori che rende la scuola particolarmente amata, come un'esperienza di vita in comune che arricchisce. Si crea così una vera comunità scolastica”. Infine, si tratta di attività che hanno un forte potere inclusivo: “Ci sono ragazzi con disabilità che prendono parte a questo progetto, ma neanche ce ne accorgiamo: con le lezioni tradizionali, è facile che questi studenti non riescano a stare al ritmo dei compagni, ma in queste attività sono pienamente alla pari, perché non sono richieste competenze di cui non dispongano. Insomma, si può fare, si deve fare, vale la pena farlo: quest'anno più che gli altri anni. I ragazzi ne hanno bisogno e lo meritano”. 

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)