Letteratura come ricerca di verità. Cento anni fa nasceva Mario Pomilio, l’autore del “Quinto Evangelio”

“Il Quinto Evangelio” tra l’altro, è stato un punto di riferimento nella nostra letteratura: ha iniziato quello che poi sarebbe stato un vero e proprio filone, il ritorno al medioevo.

Letteratura come ricerca di verità. Cento anni fa nasceva Mario Pomilio, l’autore del “Quinto Evangelio”

I cent’anni che Mario Pomilio – Orsogna (Chieti) 1921, Napoli 1990 – avrebbe compiuto oggi ci offrono l’occasione per ricordare uno scrittore che non cavalcava mode e che soprattutto faceva del suo lavoro una ricerca continua di radici. Nella sua opera più importante e nel contempo più fuori dagli schemi del mercato delle lettere, “Il Quinto Evangelio”, uscita nel 1975 per l’editore Rusconi, quelle radici svelarono la loro essenza nello stesso tempo umana e trascendente: il confronto, talvolta risentito, con l’Altro. Un Altro mai rassicurante, semmai teso a condividere il nostro percorso nel qui e nell’ora. Nel caso del Quinto Evangelio il percorso è fatto di altre e più antiche strade, tutte alla ricerca di questo mito, un Quinto Vangelo che alcuni vedono come materiale libro “altro” rispetto al canone e finanche agli apocrifi, ma che alcuni cominciano a sentire come fedeltà e testimonianza estreme all’insegnamento del Cristo.

Non è però una conclusione indolore, perché il protagonista-narratore Peter Bergin e i suoi sodali ripercorrono una storia che viene da lontano, da san Paolo e dall’Apocalisse, passando per Gioachino da Fiore e per l’Evangelo Eterno di Gerardo da San Donnino, e da molte altre testimonianze. “Il Quinto Evangelio” tra l’altro è stato un punto di riferimento nella nostra letteratura, perché ha iniziato quello che poi sarebbe stato un vero e proprio filone, il ritorno al medioevo, ripreso da Umberto Eco nel “Nome della rosa” (1980) -che deve qualcosa all’opera di Pomilio- e da Laura Mancinelli nei “Dodici abati di Challant” (1981)

Alla fine di questa lunga ricerca rimane la percezione che la testimonianza sia l’elemento più importante del percorso, e che la caduta, la disperazione, il dolore siano parte di questa strada che troverà coronamento nella verità di quel Vangelo. E non è un caso che in un’altra opera, sette anni dopo, “Il Natale del 1833”, Pomilio faccia ancora una volta i conti con il mito, anzi, un mito, quello di un Manzoni tutto fede e speranza. Un mito sfatato dall’abisso del dolore, quello della perdita di chi lo aveva aiutato a cambiare strada, e che dallo scetticismo neo-illuminista lo aveva condotto per mano all’incontro con Dio. Quando la compagna di quel percorso, Enrichetta Blondel, muore, anche tutto quel comune universo di senso sembra morire, a riprova che quella fede non è un certificato acquisito in un apposito ufficio che una volta per tutte garantisce il privilegio della felicità terrena.

Al contrario, il Manzoni di Pomilio si solleverà da una tentazione che sembrava senza speranza grazie al ritorno all’essenza, ancora una volta, dei Vangeli: la constatazione che la croce di Cristo non è una figura retorica, un modo di dire, ma una testimonianza di attraversamento della notte con noi e per noi, condividendo la nostra sorte non con le parole, ma con la reale accettazione della lacerazione e della finitudine.
Pomilio si rivela scrittore di razza per questa sua capacità di coinvolgere il lettore nella ricerca della condivisione con l’Altro , pur nel dolore e nella fatica di essere uomo nel mondo, con tutto quello che comporta questa ricerca di assoluto. Senza sconti per l’autore, per i personaggi e, ovviamente, per il lettore.

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Fonte: Sir