Ma come fanno i “normali” a pensare che i tetraplegici siano tutti infelici?

Ambientato nella metà degli anni Sessanta, il romanzo “E questo è niente” racconta la storia di Giulio, che a casa chiamano “Coso”. L’autore, Michele Cecchini, insegna in una scuola superiore ed ha già pubblicato un altro volume incentrato sul rapporto tra un padre e un figlio colpito da una malattia rara

Ma come fanno i “normali” a pensare che i tetraplegici siano tutti infelici?

Metà degli anni Sessanta, un borgo nelle campagne fiorentine: sono le coordinate in cui si muove metaforicamente Giulio, ragazzo tetraplegico di 16 anni, “ma ne dimostro sette o otto e questa cosa di dimostrare meno della mia età devo averla ereditata dal nonno. Ho due braccia e due gambe, ma non funziona nulla. A casa mi chiamano Coso oppure Coso, lì. ‘Lì’ perché è facile sapere dove mi trovo, così nessuno ha da cercarmi o da badare a me”.

Con tono scanzonato e ironico si descrive il protagonista e voce narrante del romanzo “E questo è niente”, firmato da Michele Cecchini. Il professore, che insegna materie letterarie in una scuola superiore, è alla sua seconda prova letteraria con Bollati Boringhieri: nel 2019 aveva pubblicato “Il cielo per ultimo”, incentrato sul rapporto tra un padre e un figlio colpito da una malattia rara che compromette il linguaggio.

Il nuovo romanzo è ispirato a una storia vera, o meglio a tante vicissitudini reali che l’autore ha sentito raccontare dal padre Sergio, a cui il libro è dedicato. Sergio fu allievo e membro dell’équipe di Adriano Milani, medico e fratello maggiore del più famoso don Lorenzo, maestro a Barbiana, e tra i primi in Italia a occuparsi dei diritti delle persone con disabilità, spesso recluse in casa o nascoste dalle famiglie per vergogna.

Adriano visitava i paesi e andava a cercare i bambini disabili, convinto della necessità della loro inclusione e visibilità. Seguendo le sue orme, nel 1966 (il figlio Michele nascerà sei anni dopo) Cecchini senior aprì a Lucca un Centro per bambini con paralisi cerebrale infantile. Nella finzione del romanzo, si chiamano rispettivamente il dottor Adriano e il dottor Nardi; sono medici pure il nonno e il papà di Giulio. Che, anche se non parla, ha una piena consapevolezza della sua situazione e le idee molto chiare su chi lo circonda. “Mi avrebbero voluto diverso, e questo è un tratto tipico dei normali, che non gli vanno mai bene quelli che hanno dintorno e potessero li andrebbero volentieri a cambiare”. L’uso del corsivo, scelto dall’autore, evidenzia parole chiave dal significato ambiguo: i cosiddetti normali, infatti, appaiono stranissimi agli occhi di Giulio, e anche il loro ritenere infelici i tetraplegici. “Come se la felicità dipendesse dagli spostamenti”, chiosa. E la sua lucidità smonta patologie immaginarie: dalla letargia che colpisce una parte dei compaesani alla tetraggine, “la malattia di chi vede funerali da tutte le parti”.

Lui, che una patologia seria ce l’ha dalla nascita per la compressione prolungata del cranio con un forcipe metallico e per il cordone ombelicale intorno al collo, scoprirà un mondo oltre i confini ristretti del suo lettino a sbarre e della sua "camerina" proprio grazie al Centro diurno aperto da Adriano e Nardi.

Oltre 50 anni dopo, molti diritti sembrano ormai acquisiti, ma tanta strada resta ancora da fare per una piena autonomia e inclusione. E per garantire anche alle persone tetraplegiche il diritto alla felicità.

(La recensione è tratta dal numero di maggio di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

Laura Badaracchi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)