“Mancano infermieri per mio figlio”: così il Covid colpisce l'assistenza domiciliare

Sabin ha 5 anni e una rara malattia gravissima, che necessita di assistenza 24 ore su 24. “Da un mese l'assistenza domiciliare è ridotta e presto andrà in maternità una delle ultime tre infermiere. Trovarne altri è impossibile, ora lavorano tutti nelle strutture pubbliche. Ma io non sono sicura di riuscire a salvare la vita a mio figlio, in caso di emergenza”

“Mancano infermieri per mio figlio”: così il Covid colpisce l'assistenza domiciliare

“Mi sento troppa responsabilità sulle spalle, tanta stanchezza, paura e stress: non potrei mai perdonarmi, se mio figlio morisse per colpa di un mio sbaglio. Però io sono la mamma, non un'infermiera. E troppo spesso mi ritrovo da sola, a fare le tante cose, spesso complesse, di cui lui ha bisogno. Ma gli infermieri non si trovano più: con il Covid, sono stati tutti assunti nelle strutture”. Sabina ha 29 anni, vive a San Felice al Circeo, piccola località in provincia di Latina. E' casalinga da 5 anni; da quando è nato Sabin, con una malattia rara chiamata polymicrogiria: una grave malformazione cerebrale che rende necessaria un'assistenza 24 ore su 24, perché è ventilato, ha la tracheo e una tetraparesi spastico distonica, con crisi che portano a frequenti arresti cardiorespiratori. “Io sono il pilastro familiare, mio marito il pilastro economico: lavora come muratore e sta tanto fuori casa. I primi nove mesi siamo stati sempre in ospedale, al Bambino Gesù. Poi ci hanno dimessi, dopo averci dato tutte le istruzioni per assisterlo. Naturalmente, ci è stata riconosciuta l'assistenza infermieristica domiciliare, perché mio figlio necessita di manovre importanti, in caso di emergenza e non solo. Non parla, non cammina, non fa nulla da solo e ha frequenti crisi epilettiche. Avremmo potuto avere 24 ore al giorno, ma per conservare un minimo di vita famigliare, abbiamo chiesto di averne solo 16. Ma abbiamo dovuto lottare per averle, perché questo diritto era solo sulla carta e di ore ce ne passavano solo 10. Solo a luglio dello scorso anno siamo riusciti ad arrivare a 16”,

Ora Sabin si è aggravato: “Ultimamente alle crisi epilettiche si sono aggiunte le crisi distoniche, che durano fino a 40 minuti. Fa impressione, in quei momenti, bisogna intervenire subito e bene, per salvargli la vita. Prende tanti farmaci ma non si riesce a tenere sotto controllo e una cura non c'è. Io imparato a fare tante cose, ma non sono sicura di riuscire a mantenere il sangue freddo, di fronte a un'emergenza. Già sei volte Sabin è stato portato via con l'elicottero”:

Ed è proprio questo che più preoccupa Sabina: non riuscire a dare al figlio quell'assistenza di cui ha bisogno, ma che solo un infermiere può dare. “Ma gli infermieri, nelle nostre case, sono sempre di meno: con la pandemia, è aumentata la richiesta e, tramite concorsi e manifestazioni d'interesse, molti hanno lasciato le cooperative, dove lavorano con partita Iva e contratti precari, per trasferirsi in una struttura, dove le condizioni sono decisamente più favorevoli. E così, io mi ritrovo con tre infermiere anziché cinque: significa 100 ore scoperte ogni mese. E mi aspetto che ci sia un'ulteriore riduzione, perché una delle tre infermiere è incinta e già so che non sarà possibile sostituirla, perché sostituti non ce ne sono”.

Questo significa che “io mi ritrovo a coprire il resto dei turni, ad avere molta più responsabilità, molto più stress e stanchezza, mi ritrovo a fare di più l'infermiera che la mamma. Prima avevo circa 15 notti al mese, questo mese solo 4quattro: una a settimana. Sapete che vuol dire? Vuol dire che dormo solo una notte a settimana, perché se non c'è l'infermiera io mi metto nel letto con Sabin, per paura di non accorgermi in tempo di una crisi e trovarlo blu!”.

Sabina sta lottando: “Capisco che la pandemia è un'emergenza, ma la nostra è un'emergenza nell'emergenza e noi ci sentiamo abbandonati. Non sono l'unica in questa situazione: il problema è iniziato a Roma, dove tante famiglie si sono ritrovate senza infermieri domiciliari, tutti arruolati negli ospedali della capitale. Ora, da un paio di mesi, il problema è arrivato anche qui e ho paura di quello che potrà accadere nelle prossime settimane. Mi domando: possibile che non ci avessero pensato? Io domando, ma nessuno ci dà risposte chiare, tutti se ne lavano le mani: la Asl, cooperativa, la regione Lazio, però intanto noi paghiamo un prezzo tropo alto: i nostri figli possono morire- E allora chi risponderà della loro morte? Non possiamo più essere indivisibili, chiediamo di essere protetti. La Regione Lazio deve ascoltarci, deve fare qualcosa, deve trovare una soluzione: adesso, prima che sia troppo tardi”.

Intanto, una piccola luce si è accesa: “il 30 marzo io e mio marito riceveremo la prima dose del vaccino, che la regione Lazio ha iniziato a somministrare ai caregiver di persone con disabilità gravi come Sabin. E il 20 aprile avremo la seconda dose. Per noi è fondamentale, perché Sabin è troppo piccolo per vaccinarsi, ma almeno noi saremo un po' più tranquilli: io non esco quasi mai, ma mio marito lavora, è a contatto con le persone e la preoccupazione è tanta. E' una piccola luce, ma ci rasserena tanto: si sono accorti di noi. Ora speriamo che si rendano conto che non possiamo rimanere soli”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)