Meno mutazioni, più anni. Un recente studio sulle caratteristiche genetiche dei "centenari"
La presenza di un Dna poco mutato equivale senza dubbio ad una sorta di "assicurazione sulla vita".
Centenari all’attacco! Ad oggi, detiene il primo posto assoluto in classifica Jeanne Louis Calment, morta nel 1997 ad Arles (Francia) all’età di 122 anni e 164 giorni! Tra i viventi, invece, dal 22 luglio 2018 (secondo il Gerontology Research Group), la “decana” dell’umanità è Kane Tanaka, di anni 118, nata il 2 gennaio 1903 e residente a Fukuoka (Giappone). Ma questi “campioni” in età sono solo la punta di diamante di una ampia schiera di persone centenarie e ultracentenarie: circa 20 milioni viventi in tutto il pianeta!
La domanda sorge spontanea: qual è il segreto della loro longevità? Molte le risposte finora offerte, alcune del tutto fantasiose, altre plausibili ma da verificare, altre ancora più accreditate dal punto di vista scientifico. Tra queste ultime, un recente studio (pubblicato su “eLife”), coordinato dall’immunologo e professore emerito dell’Università di Bologna Claudio Franceschi. In base a questa ricerca, una delle armi più efficaci per una vita longeva consiste nell’ “identikit” genetico di questo soggetti, caratterizzato da una bassa occorrenza di mutazioni, grazie alla presenza di varianti genetiche che assicurano un’efficiente manutenzione del Dna.
Si potrebbe dire che gran parte di questa ricerca è di “marca” italiana, sia per gli autori che per il campione studiato, consistente in 81 cosiddetti semi-supercentenari (di oltre 105 anni di età) e supercentenari (oltre 110 anni) provenienti da tutta la Penisola. Il Dna di questi soggetti volontari è stato interamente sequenziato e confrontato con quello di 36 anziani, di età intorno ai 68 anni e in condizioni di buona salute, selezionati dalle stesse regioni. Il fine di quest’analisi comparativa è comprendere come mai il genoma degli ultracentenari sia così resistente all’invecchiamento. Come gruppo di confronto sono stati scelti i (circa) settantenni sulla base del presupposto che, nonostante la loro buona salute, statisticamente è poco probabile che superino i cent’anni, considerando quanto pochi sono gli ultracentenari nella popolazione.
Ebbene, Franceschi e colleghi, non senza sorpresa, hanno scoperto che il Dna delle cellule somatiche degli ultracentenari registra un numero di mutazioni pari o inferiore a quello dei settantenni, in ogni caso un valore molto basso rispetto a quanto atteso per la loro età. Dunque, la presenza di un Dna poco mutato equivale senza dubbio ad una sorta di “assicurazione sulla vita” di queste persone, dal momento che l’accumularsi di mutazioni somatiche negli anni aumenta il rischio di malattie come quelle cardiovascolari (prima causa di morte nel mondo).
Ma perché nei centenari vi è una tale scarsità di mutazioni? Evidentemente le loro cellule sono brave nel prevenire, riparare o eliminare i danni al Dna. La riprova di ciò emerge dall’analisi genetica effettuata sui volontari centenari, che ha mostrato come, rispetto ai settantenni, negli over 105 e 110 siano presenti con maggiore frequenza cinque varianti di una specifica regione del Dna (che si trova tra i geni STK17A e COA1). A questo punto, i ricercatori sono andati a cercare queste varianti anche nei genomi di 333 italiani di oltre cent’anni e 358 persone sulla sessantina sequenziati in un precedente studio, verificando ancora una volta come la frequenza delle cinque mutazioni fosse significativamente maggiore nei centenari.
In termini più tecnici, la presenza di queste varianti consente una più efficace espressione del gene STK17A nel cuore, nei polmoni, nel sistema nervoso e nella tiroide, con evidente vantaggio della salute di cellule e tessuti di tali distretti. Questo gene, infatti, coordina la risposta cellulare in caso di danni al Dna, spingendo le cellule danneggiate alla morte programmata (apoptosi) e limitando la presenza di radicali liberi e di altre specie reattive dell’ossigeno che possono danneggiare le strutture cellulari. Diversamente, in tessuti come pelle e grasso sottocutaneo le stesse varianti genetiche riducono l’attività del gene COA1 (produzione di proteine mitocondriali e assemblaggio di componenti importate nel mitocondrio dal nucleo).
“Centenario” è bello, dunque, ma evidentemente… non è per tutti!