Parole di speranza, nonostante tutto. I settant’anni dalla tragica morte di Cesare Pavese

A settant’anni dalla scomparsa, rimane la certezza che Pavese rappresenti un classico della letteratura moderna, uno di quei classici che lui tanto amava, e traduceva.

Parole di speranza, nonostante tutto. I settant’anni dalla tragica morte di Cesare Pavese

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Nel suo romanzo terminale, “La luna e i falò” (lo scrisse tra il settembre e il novembre del 1949, uscì nell’aprile del 1950, quattro mesi prima della morte), Cesare Pavese ci manda un messaggio di vita e di speranza. Nonostante la sua tragica scelta. A settant’anni dalla scomparsa, rimane la certezza che Pavese rappresenti un classico della letteratura moderna, uno di quei classici che lui tanto amava, e traduceva. Proprio nelle sue traduzioni, soprattutto di Whitman, Faulkner, Dickens è possibile cogliere uno degli elementi-cardine della sua poetica: l’oscillazione tra città e campagna. In “La luna e i falò” lo scrittore di Santo Stefano Belbo porta a compimento il suo lungo viaggio alla ricerca di radici.

La lezione dello shock metropolitano di Baudelaire individuato da Walter Benjamin era ben presente nella sua coscienza di intellettuale trapiantato nella dimensione urbana e che però sente profondamente la nostalgia delle radici. La grandezza del suo discorso sta nel non cadere nella trappola del tutto bene da una parte (la campagna), tutto il male dall’altra (la città), ma nell’essere riuscito a narrare la contraddizione dell’uomo contemporaneo, che rimpiange le origini paesane ma che nello stesso tempo non può fare a meno della modernità cittadina. Da questa coscienza irrisolta nascono i suoi racconti e le poesie di “Lavorare stanca” e poi di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

È solo un fatto di “comodità” e di civiltà quello che sta alla base della scelta dell’uomo novecentesco o c’è qualcosa di più profondo che si nasconde nelle profondità delle radici contadine? si chiede Pavese. La risposta è che anche il paese nasconde elementi sotterranei che vengono dalla violenza primigenia, dalla miseria ma anche dalla struttura del lavoro che porta allo sfruttamento e alla disperazione i fittavoli, i più deboli della catena. Se la città è anche e non solo fretta, indifferenza, meccanicità dell’esistenza, la campagna, – o per usare il linguaggio di Pavese, la collina, il paese – significa non solo natura, aria pura, semplicità, ma anche abitudine, rassegnazione, resa alla legge tribale.

Per questo “La luna e i falò” può essere letto non come il testamento, ma il compimento di un lungo cammino che viene da lontano, dal suo primo romanzo, “Paesi tuoi”. Anche qui l’idillio paesano finisce con la violenza della morte di una donna, esattamente come accade nel ricordo di Nuto, il personaggio positivo, nel suo ultimo romanzo.
E allora non c’è scampo? La riposta è che lo scrittore deve presentare gli aspetti anche nascosti nella vita, come a dire: ecco come siamo fatti, ma esiste il bene ed esiste il male. Scegli.

In questo era fortissima la lezione di Verga, che, al di là delle etichette di realista, verista, naturalista, aveva soprattutto portato la pietas nel diario della violenza quotidiana. Se ‘Ntoni se ne va alla ricerca del benessere, Alessi, il più piccolo dei Malavoglia, rimane, accettando la fatica e la privazione, e riscostruisce la famiglia dopo il disastro.
Quel paese che ci vuole di Pavese è proprio la capacità reale di fare i conti con la fatica, con la possibilità del fallimento, con la terra. Di accettare la nudità, in tutti i suoi aspetti, della vita e di ricominciare tornando.
Ciò che a lui non è riuscito, ma che lui ci ha lasciato come benigna testimonianza di speranza

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Fonte: Sir