“Pedagogia del confine”, l’intercultura nelle scuole passa attraverso la danza

Balli tradizionali, rituali delle danze africane, esercizi a occhi chiusi, contact: sono alcune delle attività dei laboratori portati avanti a Roma con gli studenti di quarta e quinta superiore e i richiedenti asilo. Battista, ideatore del progetto: “La danza e l’arte possono essere un ponte laddove la lingua non è efficace”

“Pedagogia del confine”, l’intercultura nelle scuole passa attraverso la danza

“Prima non mi interessava sapere la loro storia, di loro non mi importava niente. Invece conoscendoli, parlando con loro, ho capito che sono ragazzi come noi, solo che hanno alle spalle delle esperienze incredibili”. Studentessa delle scuole superiori, P. è stata una delle partecipanti del progetto “Pedagogia del confine”, che a Roma attraverso la danza e il movimento coinvolge giovani e richiedenti asilo per creare ponti e promuovere l’intercultura. Durante gli incontri, i ragazzi si sperimentano in balli tradizionali, rituali delle danze africane, esercizi a occhi chiusi, giochi di gruppo o a due, pratiche di contact e molto altro, per conoscere le storie dell’altro attraverso linguaggi non verbali.

Alla base c’è la metodologia della DanzaMovimentoTerapia: partendo da lì, poi proponiamo diverse attività – spiega Fernando Battista, che ha fondato il progetto nel 2015 e che oggi su questo sta svolgendo un dottorato presso il dipartimento di Scienze dell'educazione dell’Università Roma Tre –. La danza e l’arte possono essere un ponte laddove la lingua non è efficace: il corpo è un elemento che appartiene a tutti, così come il ritmo, che nasce dal battito del cuore”. Martedì 12 gennaio, Battista parlerà del suo progetto nel talk “Fare rete. Corpi, territori, metodi”, in diretta su Facebook per raccontare diverse esperienze di didattica innovativa e progetti di integrazione nelle scuole attraverso la danza.

“Pedagogia del confine” nasce nell’istituto tecnico Livia Bottardi, che si trova nella periferia est di Roma, nel quartiere della Rustica, accanto a quello di Tor Sapienza, una zona che è stata più volte soggetta a incursioni razziste. Nel 2014, il culmine è stato lo sgombero di un centro per minori stranieri non accompagnati: dopo l’ennesimo atto di violenza, i ragazzi sono stati trasferiti. “In quel momento mi sono chiesto: come cambiare il paradigma delle narrazioni tossiche? Come smontare i pregiudizi? Da lì è partito tutto – racconta Battista –. ‘Pedagogia del confine’ è un progetto politico-pedagogico, nato pensando a che tipo di cittadini vogliamo per il futuro e all’importanza di promuovere l’intercultura nella scuola. Il confine è un luogo neutro, che non appartiene a nessuno, dove ci si può incontrare liberamente come persone, come esseri umani. Uno spazio che si può attraversare, che separa ma allo stesso tempo unisce, che si mette tra due mondi. Quando entro in classe, parlo sempre del coraggio di attraversare quella linea”.

Il laboratorio, condotto da Battista insieme a Monica Serrano, ogni anno ha messo insieme un gruppo di 35-40 persone, formato da richiedenti asilo dell’associazione Laboratorio 53 e dell’ong Intersos, dagli studenti delle quarte e delle quinte di alcune scuole superiori (oltre all’istituto Bottardi, anche il Liceo Amaldi), dagli operatori e dai mediatori culturali. Gli otto incontri, di cui due direttamente dentro la scuola, sono quindi un’occasione per conoscersi, raccontare la propria storia attraverso diversi linguaggi, e allo stesso tempo conoscere nuove culture e stringere legami più profondi.

“Io traccio a terra una linea bianca, da un lato stanno gli studenti, dall’altro i migranti: all’inizio non ci si può toccare, ci si può solamente specchiare nella gestualità dell’altro. Solo dopo un tot di tempo si può superare la linea e abbracciarsi – spiega Battista –. Con il Covid il progetto si è momentaneamente fermato, ma riprenderà appena possibile: è fondamentale continuare a lavorare nella scuola, un contesto viziato dalle narrazioni discriminatorie come quelle dei porti chiusi e del ‘tornatevene a casa vostra’. Lavoriamo verso un cambio di paradigma, andando a ristabilire una dimensione di racconto fatto direttamente da chi ha vissuto quelle esperienze di cui tanto si sente parlare”.

Alice Facchini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)