Ricerche recenti sull’obesità. Sovrappeso e obesità sono tra le principali cause di morte e disabilità nella Regione europea dell’Oms

In Italia nel 2015 (ultimi dati ufficiali), più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) risultava in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%).

Ricerche recenti sull’obesità. Sovrappeso e obesità sono tra le principali cause di morte e disabilità nella Regione europea dell’Oms

Nel mondo, sempre più persone vivono in sovrappeso o in condizioni di obesità. Dal 1980 ad oggi, infatti, il numero globale di soggetti obesi è praticamente raddoppiato (nel 2014 oltre 1,9 miliardi di adulti erano in sovrappeso, tra cui oltre 600 milioni obesi). Basti pensare che, in base ai dati più recenti (fonte Oms), in Europa il 59% degli adulti europei e quasi 1 bambino su 3 (29% dei maschi e 27% delle femmine) è in sovrappeso o è affetto da obesità, ormai considerata una vera e propria malattia per le sue pesanti conseguenze sulla salute. Sovrappeso e obesità sono infatti tra le principali cause di morte e disabilità nella Regione europea dell’Oms, causando più di 1,2 milioni di decessi all’anno (equivalente a oltre il 13% della mortalità totale nella Regione).

L’Italia non fa eccezione a questa tendenza. Nel 2015 (ultimi dati ufficiali), più di 1/3 della popolazione adulta (35,3%) risultava in sovrappeso, mentre una persona su dieci era obesa (9,8%); complessivamente, il 45,1% dei soggetti di età ≥18 anni era in eccesso ponderale.

Oltre agli aspetti epidemiologici, è interessante considerare la condizione clinica dell’obesità. Un recente studio (pubblicato su “Nature Metabolism”), infatti, ha evidenziato come non esista una sola forma di obesità, bensì due, con caratteristiche fisiologiche e molecolari ben distinte. Esse, di conseguenza, possono evolvere in modo diverso, rispondere in modo differente alle cure ed essere un fattore di rischio più o meno importante per altre patologie, ad esempio i tumori. In più, sembra che non ci sia verso di distinguere i due tipi di obesità mediante le analisi di routine, basate sul calcolo dell’indice di massa corporea che tiene conto solo di peso e altezza, con la conseguente incertezza sull’effettiva validità ed efficacia dell’eventuale percorso di cura intrapreso dal paziente.

L’innovativa ricerca è stata condotta da Andrew Pospisilik, direttore del Pospisilik Laboratory del Van Andel Institute, un’associazione no profit di ricerca biomedica (Usa), insieme a un gruppo di suoi collaboratori.

Per affrontare il loro studio, i ricercatori sono partiti dalla raccolta di dati morfometrici (altezza, peso, massa grassa, ecc…) di oltre 150 coppie di gemelli omozigoti, cioè con Dna identico. Dalla loro analisi è emersa la conferma di quanto già si sapeva, ovvero che non bastano né i geni né l’ambiente a formare un organismo (anche umano). All’interno della stessa coppia di gemelli, infatti, poteva capitare di trovarne uno magro e uno obeso. In alcuni casi, il gemello obeso aveva più massa grassa, in altri aveva più massa grassa e più massa magra. Proprio quest’evidenza ha permesso ai ricercatori di identificare le due forme di obesità: Tipo A e Tipo B.

“L’idea di base dello studio – spiega Luca Fagnocchi, ricercatore al Van Andel Institute e primo autore dell’articolo – è che in qualsiasi organismo ci possono essere diverse traiettorie dello sviluppo. In altre parole, un certo genotipo può dare origine a diversi fenotipi, come abbiamo visto nei gemelli monozigotici per l’obesità, come può accadere per altri tratti non necessariamente patologici. Si tratta di una variabilità fenotipica controllata da meccanismi che ancora non conosciamo appieno. In parte c’entra l’epigenetica, ovvero l’insieme delle modifiche del Dna che non cambiano i geni bensì la loro espressione”.

Proprio i fattori “epigenetici” sembrerebbero avere un ruolo determinante nello sviluppo dell’obesità di Tipo B. Gli studiosi, infatti, hanno scoperto che i gemelli con più massa grassa e più massa magra avevano una significativa riduzione nei livelli di “metilazione” (un tipo di modifica epigenetica che consiste nel legame di un gruppo metile a una base azotata del Dna) in centinaia di siti del genoma. Tra l’altro, a parere dei ricercatori, questo tipo di obesità sarebbe più pericolosa in quanto legata a una maggiore infiammazione, dovuta probabilmente a un’infiltrazione di cellule immunitarie nel tessuto adiposo, infiammazione che aumenta il rischio di tumori e altre patologie.

Circa l’obesità di Tipo A, invece, l’innesco epigenetico sarebbe meno rilevante, mentre avrebbero un maggiore ruolo scatenante mutazioni genetiche oppure influenze ambientali come dieta, abitudini, esercizio fisico. Entrambe le ipotesi, comunque, necessitano di verifiche ulteriori, con due obiettivi in mente. “Da una parte – chiarisce Fagnocchi – cercare biomarcatori per le due obesità, in modo che qualunque medico, attraverso una semplice analisi del sangue, possa distinguerle. Ora per identificarle eseguiamo un’analisi dei geni espressi in maniera differenziale nel tessuto adiposo, ma è evidente che non possiamo usare questo tipo di indagine, tra l’altro invasiva perché richiede di prelevare campioni di tessuto, per scopi diagnostici”. Il secondo obiettivo, consiste nel mettere a punto terapie mirate per ciascun tipo di obesità. “Oggi – conclude lo scienziato -, per chi è obeso in modo grave, l’unica opzione reale è sottoporsi a un intervento chirurgico per ridurre il volume dello stomaco, ma non sempre si hanno i risultati sperati: il 15-30 per cento dei pazienti riprende peso. Quindi, doppiamo capire qual è il trattamento o le combinazioni di trattamenti migliori, operazione e diete studiate ad hoc, per curare al meglio le due obesità”.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Sir