Sara, milanese e egiziana: contro la violenza sulle donne musulmane

Volontari inattesi. Nata in Italia, arteterapeuta, ha 32 anni e fa volontariato da quando ne aveva 17: si dedica all’associazione Progetto Aisha, dove operano sia italiani che giovani di seconda generazione. “Credo alla cittadinanza ‘civile’. E mi piace mandare in tilt schemi e diffidenze di chi mi guarda solo come straniera”

Sara, milanese e egiziana: contro la violenza sulle donne musulmane

“Volevo rompere lo stereotipo che l’Italia non è una comunità multietnica. E che di fatto lo straniero è un non-cittadino. Io non credo nella cittadinanza italiana ‘formale’, credo in quella civile’, che corrisponde a quanto sei attivo e al contributo che dai. Solo così potremo andare oltre il solito ragionare in termini di ‘noi e loro’”. Forse a 17 anni, quando ha iniziato, Sara non sapeva definire con questa precisione il motivo per cui voleva fare volontariato. Forse aveva solo la voglia di “inserirsi in modo intelligente nel tessuto sociale e di andare contro certe idee…”, ammettendo del resto che la prima ragione era stata quella di cercare “una strada lavorativa”. Ma oggi, che di anni ne ha 32, la sua voce è tra quelle più acute raccolte con la ricerca di CSVnet “Volontari inattesi”, sul volontariato delle persone di origine immigrata.

Sara Sayed, figlia di genitori egiziani, sposata, arte terapeuta psicodinamica, in realtà è nata e vive a Milano: tecnicamente è una “seconda generazione”. Di religione musulmana, ha frequentato un liceo cattolico e ha fatto prima volontariato ospedaliero presso il famoso Trivulzio e con l’Avo, quindi con bambini e adolescenti presso l’Uvi e il Centro di Solidarietà Ambrosiano, fino all’esperienza iniziata nel 2016 fa nell’associazione Progetto Aisha. È sempre stata consapevole che il suo impegno, al di là delle “cose” fatte, era anche una testimonianza legata alla sua origine e al tentativo di cambiare la visione che gli italiani hanno degli immigrati. Ma nello stesso tempo, grazie al volontariato, ha imparato ad essere “più dinamica e meno rigida, ad essere più diretta”. E, superando la diffidenza che a volte ha avvertito, ad esempio dai pazienti assistiti in ospedale, si è accorta di diventare “molto più sicura delle mie competenze, più incisiva e cosciente del mio diritto di fare volontariato, indipendentemente dalla mia appartenenza. A volte mandando in tilt gli schemi di chi inizialmente mi guardava solo come ‘una straniera’”.

Oggi tutto l’impegno gratuito di Sara fuori dal lavoro è per Progetto Aisha, una delle pochissime organizzazioni in Italia (se non l’unica) che combatte la violenza contro le donne nella comunità islamica e non solo. Un problema spesso sfuggente a causa delle barriere linguistiche e della paura di essere isolate che le vittime temono. L’associazione riesce a contrastarlo soprattutto grazie a una ventina di volontari – anche uomini e anche italiani – che hanno sviluppato una rete informale in grado spesso di raggiungere le donne prima ancora che abbiano avuto il coraggio di denunciare. Sara, che fa parte anche del direttivo, si occupa della rete, dei rapporti con soggetti esterni e dei grandi eventi di sensibilizzazione. 

Le sue idee sono chiare anche su un grande tema che la ricerca ha fatto emergere: l’accoglienza non sempre scontata del volontariato straniero da parte delle associazioni italiane: “Ciò che può mettere in difficoltà il mondo del sociale, - dice Sara, - è scoprire che ci sono nuovi protagonisti, cioè che magari gli stranieri non vogliono solo fare i volontari ma anche incidere nelle scelte, assumere ruoli decisionali. Del resto questo è il modo migliore per attrarli: non basta fare ‘reclutamento’ di volontari stranieri, bisogna anche dargli la possibilità di esercitare, il loro protagonismo, di creare se lo desiderano delle proprie realtà. Per esempio, è facile trovare chi aiuta in tigrino i rifugiati in Porta Venezia. Più difficile è dirgli che come comunità eritrea dovrebbero fare qualcosa per essere riferimento dei nuovi arrivati, che noi italiani vi supportiamo ma poi siete voi che agite e noi faremo un passo indietro”.

Una dinamica che in parte Sara ha vissuto anche con Progetto Aisha: “All’inizio ci siamo un po’ scontrati con alcune realtà territoriali. Siamo stati scomodi, qualcuno ha avuto il coraggio di dirci di rimanere nel nostro, che non abbiamo nessuna competenza per intervenire... Non è una cosa bella da dire: noi abbiamo medici, avvocati, persone che hanno fatto parte di altre associazioni, gente che ha sempre seguito le donne, volontari competenti. Se non ci fosse Progetto Aisha molti interventi non verrebbero fatti e molte situazioni non emergerebbero”. Nello specifico, secondo Sara, i motivi sono legati per esempio alla presenza di volontari uomini. Alcune realtà territoriali milanesi, e non solo, ritengono che la presenza maschile sia di ostacolo agli interventi di tutela della donneo più ingenerale inopportuni, mentre per noi la presenza maschile è fondamentale. I percorsi di reinserimento sociale devono essere calati nella realtà, riscoprendo un mondo maschile positivo che sostiene i diritti e l’autodeterminazione delle donne.

Ma il bilancio della sua esperienza è molto positivo. “Cosa mi piace di più del fare volontariato? – conclude - Che non c’è di mezzo il denaro, che ci si ritrova lì a condividere l’interesse comune, senza secondi fini, avendo relazioni alla pari: tutti contribuiscono nella stessa misura, per le proprie possibilità. E poi ti fa vedere le cose come sono nella realtà: capisci che c’è anche dell’altro oltre ciò che ti viene raccontato dai mezzi di informazione”. (Intervista integrale realizzata da Maurizio Artero. Redazione di Stefano Trasatti)

La ricerca Volontari inattesi - L’impegno sociale delle persone di origine immigrata, a cura di Maurizio Ambrosini e Deborah Erminio (Edizioni Erickson, pagg. 352), viene presentata… Leggi tutti gli aggiornamenti nel focus di CSVnet.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)