Scrittura come salvezza. Perché scriviamo? Il filosofo Franco Rella cerca di rispondere a questa antica domanda

In questo momento di isolamento doloroso, il comunicare attraverso la scrittura si riprende lo spazio che gli era stato gradualmente sottratto dal salotto mediatico.

Scrittura come salvezza. Perché scriviamo? Il filosofo Franco Rella cerca di rispondere a questa antica domanda

“Sheherazade si salva la vita raccontando storie”: eccola la sintesi più giusta per “Narrare. Tentativi di inventario” (Jaca Book, 184 pagine, 20 euro) recente libro di Franco Rella, docente impegnato da anni nell’approfondimento di una Estetica che sia terreno fertile di confronto tra filosofia, letteratura ed arte. Perché alla fine della lettura di un lavoro che sonda gli abissi – solitudine, paura della morte, tedio, sospetto del non senso della vita – di pensatori del calibro di Socrate, Platone, Euripide, S. Agostino, Pascal, Kierkegaard, Hӧlderlin, Baudelaire, Goethe, Valery, Nietzsche, Benjamin, Thomas Mann, e molti altri, troppi per un arido elenco, si ha la sensazione che la pura intelligenza non basti. Ci vuole altro per avvicinarsi al senso abissale della scrittura, che non può essere catalogata e definita una volta per tutte. Ma che nello stesso tempo, ha ragione Sheherazade, può essere anche salvezza. Soprattutto perché in questo momento di isolamento doloroso, di abbandono e talvolta disperazione, cui fa esplicito riferimento questo libro, il comunicare attraverso la scrittura si riprende lo spazio che gli era stato gradualmente sottratto dal salotto mediatico, dai “famosi” al mare, in montagna, a letto, dappertutto: da una comunicazione a senso unico perché poi tanto c’era l’incontro reale, la chiacchierata, l’abbraccio. Cosa messa in forse, speriamo di no, e se sì, per poco, dal nuovo flagello. Come scrive Rella, riprendendo suggestioni che fanno pensare soprattutto all’Eliot del “Canto d’amore di Prufrock”, “c’è la sensazione di un esilio vissuto nella solitudine di pomeriggi pieni di vuoto fino a scoppiare”.

Il senso più profondo dello scrivere si avvicina alla radicale semplicità della molteplicità del suo senso e della sua accettazione: con un preciso riferimento a un passo delle Baccanti di Euripide, l’autore coglie quello che è qualcosa di più di un semplice sospetto, quando afferma che “Sapienza dunque è semplicemente vivere, non chiedere nulla”; non nel senso della resa ad una ignoranza tutt’altro che “dotta”, come avrebbe desiderato Cusano, ma dell’ interminabile percorso dei suoi “cercatori d’anima”, che non cedono né alle lusinghe di una parola che “squadri” , per rubare un termine -geniale- alla poesia di Montale, ogni cosa, la riduca a concetto, la analizzi in laboratorio, perdendone in senso profondo, ma neppure alla fissazione di un desiderio sempre rinnovato e fine a se stesso, come aveva ben capito Schopenhauer.

La scrittura nasce perché siamo persone, perché non siamo riconducibili a ritmi binari, perché, tornando a Sheherazade, sentiamo dentro di noi che da essa emerge un universo di senso in grado di giustificare con la sua sola apparizione il tenebroso sospetto dell’insensatezza del mondo. Come spiega Rella, la sola intelligenza, la civiltà, il progresso non bastano a sconfiggere il mostro pronto a saltare, perché se ci si pensa bene, “Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte”.

Il che non significa demonizzazione del progresso e della tecnica, ma invito a finalizzarle alla conservazione della casa comune, cosa che non è stata fatta finora, altrimenti non avremmo avuto epidemie, carestie, eventi meteorologici e una violenza storica che dovrebbero farci riflettere molto, ma molto, prima che si faccia tardi.

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Fonte: Sir