Umiliazioni, solitudine ma anche rinascita: il carcere raccontato da un "sociologo detenuto"

Parla Alessandro Limaccio, primo detenuto in Italia ad aver conseguito un dottorato in sociologia. Condannato al fine pena mai, dal 1995 grida la sua innocenza e rifiuta per protesta ogni misura alternativa. A luglio ha vinto il Premio internazionale di letteratura Città di Como con il libro "Il sociologo detenuto", reportage unico nel suo genere sul mondo del carcere

Umiliazioni, solitudine ma anche rinascita: il carcere raccontato da un "sociologo detenuto"

È il 1995 quando Alessandro Limaccio varca per la prima volta il cancello della Casa Circondariale di Catania. Ventisei anni dopo, tante cose sono cambiate, dentro e fuori il carcere: Alessandro è diventato un sociologo, ha conseguito un dottorato all’università di Roma La Sapienza, ha vinto il Premio nazionale alla cultura “Sulle ali della libertà”. Solo una cosa è rimasta uguale: Alessandro non smette di gridare la sua innocenza. Lo fa rifiutando ogni misura alternativa, beneficio o permesso, ai quali da dieci anni avrebbe diritto. E si riesce solo ad immaginare quanto possa essere prezioso passare una giornata fuori, nel mondo, se si è condannati al "fine pena mai".

L’accusa, per il primo detenuto in Italia ad aver ottenuto un dottorato di ricerca, è di essere un assassino. Negli anni ’90 Alessandro era un ragazzo di vent’anni di Lentini, vicino Siracusa, attivista della Democrazia Cristiana e convinto cattolico. Nell’ambito dei maxi processi per mafia, alcuni pentiti fanno il suo nome: lo indicano come l’autore di diversi omicidi, anche se lui e la sua famiglia di commercianti sono lontani da quell’ambiente criminale. Come scrive il giornalista di Radio Radicale, Enrico Rufi, che ha curato la prefazione dell’ultimo libro di Alessandro: “I pentiti dei processi di Limaccio non sono mai presenti sui luoghi dei delitti, ma riferiscono voci e accuse raccolte qua e là. Non solo la donna che aveva visto trucidare il marito, anche un prete e un carabiniere fuori servizio non avevano riconosciuto Limaccio nel killer che in pieno giorno aveva sparato in uno stabilimento balneare”. Ma questo non basta e Alessandro viene ritenuto colpevole: la sua condanna giudiziaria è basata sulle dichiarazioni dei pentiti.

In questi anni però Alessandro non ha mai perso la speranza, ha dedicato il suo tempo alla preghiera, all’attività fisica e allo studio e ha fatto del carcere il suo terreno di ricerca antropologica. Il frutto di questo lavoro minuzioso è il libro "Il sociologo detenuto - una storia etnografica", edito da Herald Editore, con l’introduzione del Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. Alessandro vive sulla sua pelle la condizione che descrive: ha trascorso i primi anni nel carcere di Catania, otto in quello di Secondigliano, il “lager”, come veniva definito dai detenuti, fino ad approdare in quello di Rebibbia. Ha condiviso con i suoi compagni di cella il terrore dei pestaggi, le umiliazioni, la solitudine; ha vissuto con dodici uomini in venti metri quadrati nel caldo delle estati che si susseguivano. Ma non c’è solo la sua vita nelle pagine di questo reportage, unico nel suo genere: ci sono le storie di chi abita questo mondo ‘altro’. C’è quella di Angelo, che ha vissuto per anni nel manicomio criminale di Aversa; c’è la vita di Fabiola, transessuale brasiliana che ha nel cuore il suo Paese; c’è la dolcezza di Guerino che insegna l’Ave Maria in romanè.

Nel dibattito pubblico di carcere si parla poco e male. Conquista i titoli dei giornali solo quando si aprono inchieste, come quella sulle violenze nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, o quando ritorna in libertà un detenuto con il passato di Giovanni Brusca. Il libro di Limaccio mostra, invece, una prospettiva nuova attraverso cui guardare questo luogo sospeso: impone un dibattito serio sul "fine pena mai", quello che il Garante dei detenuti ha definito una “privazione di vita e non solo di libertà, una privazione di futuro, un’uccisione di speranza”. Ci interroga sul ruolo dei pentiti nei processi e degli imputati che non possono scegliere la via della collaborazione, e quindi dello sconto della pena, perché a volte, semplicemente, sono innocenti. Ma il reportage di Limaccio è anche una boccata di aria fresca: mai in queste pagine si smette di credere nella rinascita e nella bontà dell’uomo. Abbiamo intervistato Limaccio che a luglio, con il suo lavoro, ha vinto il Premio internazionale di letteratura Città di Como.

Lei nel suo libro scrive che più volte in passato aveva provato a narrare il mondo del carcere, ma che ogni volta “una specie di vergogna e disgusto” glielo aveva impedito. Cosa le ha fatto cambiare idea?
È stato per senso di responsabilità che ho deciso di prendere carta e penna. Spero che, attraverso la scuola, questo libro possa anche svolgere una funzione pedagogica sui giovani, in modo che, soprattutto i bulli, conoscano cosa sia il “mondo carcere” e ci stiano alla larga. Nel testo a parlare sono i detenuti, che con sincerità e senza giri di parole raccontano la loro esperienza di vita.

È stato difficile per lei scrivere queste pagine, ricoprendo il duplice ruolo di sociologo e di persona detenuta?
In quanto sociologo detenuto rappresento il “mondo carcere” dall’interno, ma dal quale mi sento profondamente estraneo, perché sono innocente e non appartengo al mondo della devianza. Il mio, quindi, è il punto di vista di un innocente che partecipando osserva dall’alto in modo terzo, e che per coerenza personale, onestà intellettuale e deontologia professionale rifiuta di chiedere i benefici premiali (previsti dall’ordinamento penitenziario) per poter proclamare con più forza la propria innocenza. Visto che i benefici penitenziari rientrano nella funzione rieducativa della pena, e chiedere benefici premiali significherebbe accettare indirettamente un pena ingiusta, inflitta per un reato non commesso. L’innocenza non si patteggia e l’innocente non implora pietà, ma reclama giustizia. Per tanto, scrivere queste pagine non è stato difficile, ma è stato un dovere morale. 

Nel suo libro offre una testimonianza viva e oggettiva delle condizioni degradanti e umilianti in cui spesso le persone detenute vivono. Se potesse, quale è la prima cosa che cambierebbe dell’istituzione carcere e perché?
La prima cosa da cambiare dell’istituzione carcere è la detenzione in cella multipla, poiché il poter rimanere rinchiuso da solo in cella può realmente offrire al singolo detenuto la concreta possibilità di riflettere sugli errori commessi. Questo modo di detenzione offre, inoltre, il mezzo migliore per impedire che il singolo detenuto riceva le influenze negative derivate dal contatto obbligato con gli altri detenuti; influenze che hanno fatto del carcere, dalle origini fino ai nostri giorni, una vera e proprio scuola di corruzione e un luogo sicuro di reclutamento della malavita.

Leggendo il suo libro, si è colpiti dalla grande fede che ha in Dio, ma anche nella bontà dell’uomo, nonostante tutto. Da dove nasce questa fiducia e come ha fatto a non perderla in questi anni? 
Sono un fedele della Santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, credo in Dio, dico le preghiere e sono fermamente convinto che Gesù ricompenserà tutte le mie sofferenze. Dunque, non posso non avere fede in Dio, che è la massima espressione di bontà e amore, e non posso non avere fede nella bontà e nell’amore dell’uomo, visto che l’uomo è stato fatto da Dio secondo la sua immagine e come sua somiglianza.

È riuscito a perdonare chi le ha fatto del male? E cosa è per lei il perdono?
Da bambino mi sono consacrato a Dio, promettendogli che avrei accettato con gioia qualunque progetto Egli avesse avuto in serbo per me. Ecco perché non ho rabbia e ho perdonato quanti mi hanno fatto del male e quanti continuano a farmene ancora; fa tutto parte del progetto che Dio ha realizzato per me e io lo accetto con amore e felicità.
Per quanto mi riguarda sono le scelte che ho fatto e che faccio ogni giorno a rendermi ciò che sono, a farmi credere nella forza dell’amore e del perdono. Perché il perdono è un dono di Dio che ci fa rinascere a vita nuova.

Lei è stato condannato all’ergastolo ostativo, una pena senza fine che non può essere né abbreviata né convertita in pene alternative, a meno che la persona detenuta decida di collaborare con la giustizia. Nel 2019 la Corte Europea dei diritti dell’uomo aveva invitato l’Italia a rivedere la legge. Ultimamente, anche la Corte Costituzionale ha ritenuto l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione ed ha concesso al Parlamento un anno di tempo per approntare una nuova disciplina in materia. Secondo lei cosa ha impedito e impedisce che in Italia si possa abolire il ‘fine pena mai’?
Poter utilizzare l’arresto e la detenzione come mezzo per estorcere una confessione, e la pena dell’ergastolo come risposta a una richiesta popolare di vendetta è, secondo me, ciò che ha impedito e impedisce che in Italia si possa abolire il fine pena mai.

Ha sottolineato per le persone detenute l’importanza di imparare un mestiere, non solo intellettuale, ma soprattutto manuale, e propone anche di costituire una Fondazione.
La mia idea consiste nel creare, all’interno delle carceri, dei laboratori in cui i detenuti possano imparare un mestiere, la cui offerta, nel mercato del lavoro, non soddisfi la domanda. In questo modo, il detenuto che uscirà dal carcere troverà subito una occupazione. Propongo di costituire una fondazione che operi senza fini di lucro, autorizzata dal Presidente della Repubblica, che favorisca la sostenibilità organizzativa-economica, la vivibilità e l’umanità alle persone svantaggiate, oltre a organizzare progetti per il reinserimento dei detenuti nella società civile.

Cosa sogna per la sua vita?
Per la mia vita sogno di poter mantenere la promessa fatta alle mie nipotine Maria Vittoria e Beatrice di portarle a spasso per il Trentino e visitare la casa di Alcide De Gasperi insieme a Enrico Rufi.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)