“Vojo vedé coll’occhi mia…”. Federico, che vuole sapere perché e come "i nazisti uccidevano gli storpi, i ciechi e le persone carrozzate"

Sono passati dieci anni da quella giornata di aprile, trascorsa nel campo di sterminio di Auschwitz. Federico oggi di anni ne ha 31. Da piccolo i medici lo avevano dato per spacciato, ma si sbagliavano.

“Vojo vedé coll’occhi mia…”. Federico, che vuole sapere perché e come "i nazisti uccidevano gli storpi, i ciechi e le persone carrozzate"

Sono passati dieci anni, da quando ha varcato per la prima volta il cancello di Auschwitz. Lo ha fatto per lavoro. Un lavoro che lo ha portato e lo porta ancora oggi in Paesi martoriati da guerre e conflitti, per raccontare la speranza che germoglia anche e soprattutto là dove sembra essere rimasta solo terra bruciata.

Quel viaggio ad Auschwitz è stato diverso da tutti gli altri. Ha lasciato il segno.

A dieci anni di distanza, il giornalista Daniele Rocchi del Sir ha ricordato quella giornata di aprile con un post pubblicato sulla sua pagina Fb mercoledì 27 gennaio, in occasione della Giornata della memoria.

“Vojo vedé coll’occhi mia quello che hanno fatto. Hai visto come è facile morì, morì è facile…”.

Davanti al “Block 5” Federico A. alza la voce dallo spiccato accento romano, perché vuole entrare e vedere in prima persona le foto, le testimonianze, i ricordi, i documenti di uno dei luoghi più famigerati di Auschwitz, lo “Stammlager” (lager principale), l’originario “Konzentrationslager” (campo di concentramento) dove dal 14 giugno 1940 furono internati decine di migliaia di prigionieri e dove in una piccola camera a gas vennero uccise 70 mila persone. Ricordo bene Federico, era giunto in Polonia con un gruppo di giovani dell’Unitalsi, un pellegrinaggio sulle orme di Giovanni Paolo II che lo ha portato a fare tappa ad Auschwitz e al vicino lager di Birkenau, “Vernichtungslager” (campo di sterminio) dove vennero sterminati un milione di persone, ebrei ma anche zingari, omosessuali e disabili. Federico vuole sapere perché e come “i nazisti uccidevano gli storpi, i ciechi e le persone carrozzate come me”. E la domanda non lascia scampo alla guida invitata a rispondere ad un ragazzo di 21 anni che, essendo affetto da tetraparesi spastica, vive e si muove in carrozzella, “la mia seconda pelle”. Agli amici che accompagnavano Federico non è rimasto niente altro da fare che prendere di peso Federico e la sua carrozzina e portarlo dentro il blocco, nonostante gli spazi stretti e non accessibili alle persone disabili. Ma Federico vuole sapere e mentre la guida spiega, mostrando attraverso le foto e i documenti esposti le atrocità naziste perpetrate ai danni di uomini, donne, anziani e bambini, chiede “ma che male ha fatto tutta ‘sta gente? ‘Sti bambini che colpe hanno?’”. Poi si rende conto dell’imbarazzo della guida alla quale chiede scusa per “la domanda cruda e diretta, ma io so’ fatto così”. Arrivano le foto di bambini denutriti, dai volti terrorizzati, tra cui quella di una bambina di 2 anni unica sopravvissuta di 3 gemelli agli esperimenti di Josef Mengele, lo “zio dei bambini di Auschwitz” come si faceva chiamare dalle “sue cavie”, e i disegni di un internato, Mieczyslaw Koscielniak, che racconta i maltrattamenti quotidiani cui i prigionieri erano sottoposti dai soldati tedeschi e dai Kapò. Federico non trattiene le lacrime: “Se fossi vissuto in quel tempo, oggi non sarei qui. I nazisti sopprimevano anche i disabili. Oggi mi sono messo nei loro panni e sono morto con loro. Essere qui, in questo luogo, mi impegna a testimoniare che il male esiste ma anche a dire che la sofferenza redime. Tutte queste persone non sono morte invano, racconterò a chiunque di questa visita, per questo sono voluto entrare. Non farlo sarebbe stata una fuga dalla sofferenza e dalla verità. Qual è lo scopo della nostra vita se non lasciare delle orme di bene? Per me ciò equivale ad affrontare la sofferenza con caparbietà, tenacia, guardarla bene in faccia. Usciamo da Auschwitz più forti di prima”. Fuori del “Block 5” incontriamo decine di giovani israeliani che, avvolti nella bandiera con la stella di David, cantano abbracciati davanti ai forni crematori. Una scena che scuote e che fa dire a Federico: “Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, dovrebbe venire qui per riflettere, pregare e gridare: ‘Mai più!’”.

Sono passati dieci anni da quella giornata di aprile, trascorsa nel campo di sterminio di Auschwitz. Federico oggi di anni ne ha 31. Da piccolo i medici lo avevano dato per spacciato, ma si sbagliavano. “Eccomi qui a cercare di diffondere il messaggio di speranza che riguarda la bellezza della vita in tutte le sue sfaccettature”, racconta sui social. “Desidero dire alle nuove generazioni che non esistono i problemi, esistono le soluzioni. I vincenti cercano una soluzione, i perdenti una scusa”. Federico oggi è al secondo anno di teologia alla Pontificia università lateranense Ecclesia Mater. “Il mio sogno? Diventare un teologo della gioia e della riflessione”.

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Fonte: Sir