Parla Stefano Zamagni. "La vera sfida? Riappropriarci del nostro tempo libero"

Intervista a Stefano Zamagni, economista, saggista e docente universitario. «Le ore cosiddette "liberate" rischiano di diventare oggetto di una forma di mobbing indiretto».

Parla Stefano Zamagni. "La vera sfida? Riappropriarci del nostro tempo libero"

Un’invenzione relativamente recente. Un bene prezioso, sul quale si gioca buona parte della qualità della vita, e che rischiamo di lasciarci sfuggire dalle mani. Il tempo libero è come un recipiente: sta a noi riempirlo con la bellezza che il nostro paese ci offre, dedicarlo agli altri, o lasciarcelo scippare da modelli neo-consumistici. Ma come nasce l’idea del tempo libero? Lo abbiamo chiesto al professor Stefano Zamagni, docente di economia politica all’Università di Bologna, ex presidente dell’agenzia nazionale per le Onlus, consigliere e amico di papa Francesco.
«Il concetto di tempo libero è associato all’evoluzione dei sistemi produttivi a partire dalla prima rivoluzione industriale fino a quella attuale. Di tempo libero si è cominciato a parlare quando l’evoluzione dei sistemi produttivi ha diminuito la necessità di dedicare molte ore al lavoro. Soltanto nei primi anni Settanta è iniziata la cosiddetta settimana breve, di cinque giorni lavorativi. Poi sono diminuite le ore settimanali. Per non parlare del weekend e delle ferie. Quando questo è avvenuto è sorto il problema del tempo libero: come fare a riempire tutte quelle ore che sono diventate “liberate”? E’ nata l’esigenza di proporre modelli per riempire quelle ore».
Come riempire un vuoto?
«L’essere umano non può stare senza fare niente. Il tempo è come un recipiente che può essere riempito con cose belle o cose brutte, questo dipende da noi. Tra le attività con le quali possiamo occupare il tempo libero c’è quello che i greci chiamavano philokalia, la cura del bello, che non è solo paesaggio naturale, ma anche bellezza artistica, letteraria o musicale. Oppure il tempo libero può essere occupato con attività di natura sociale, come l’associazionismo o il volontariato. Negli ultimi tempi, in prossimità della quarta rivoluzione industriale, che è quella che stiamo vivendo, le forze produttive stanno cercando di rioccupare loro questo tempo libero, per trarne un profitto».
In che modo?
«In base a un modello neo-consumistico, si devono creare artatamente bisogni fittizi e gli strumenti per soddisfarli. Ad esempio, i social. Questa oggi è la grande sfida. Tra non molto la settimana lavorativa sarà di quattro giorni, ma il tempo libero che ne rimane non verrà occupato per gli obiettivi di natura, cultura e sociale, ma rischia di essere riappropriato dalla logica del capitale. E’ un pericolo sul quale papa Francesco ha più volte richiamato l’attenzione. Se i giovani non stanno dieci ore al giorno in contatto col mondo intero, soffrono».
Hanno bisogno di comunicare…
«I social aumentano i contatti, ma diminuiscono le relazioni e questo spiega la loro attuale situazione di solitudine. Bisogna aprire gli occhi. Quel tempo che si era “liberato” è diventato oggetto di una forma di mobbing indiretto. Permettere a un ragazzo di stare ore in rete non è libertà, ma una nuova forma di schiavitù. Il condizionamento psicologico è tale per cui se non fai una cosa non ti senti alla pari con gli altri. La Francia ha votato una legge che impedisce ai ragazzi di portare a scuola il cellulare».
Secondo lei si potrebbe fare anche in Italia?
«Da noi non se ne vuole parlare, perché siamo dei superficialoni. L’Italia, con la bellezza che ha, potrebbe sfruttarla di più. Ma ci vuole organizzazione. Bisogna creare delle alternative. Bisognerebbe organizzare campi scuola senza telefonini. Gli scout lo fanno e i miei nipoti ci vanno. Se si offrissero delle alternative valide ai giovani, sarebbero meno schiavi del cellulare. Perché quelle esigenze servono solo a riempire un vuoto».

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