Un decennio con la grande crisi

Sono passati dieci, forse undici anni dall'inizio della grande crisi. Negli scatoloni dei banchieri che abbandonavano Lehman Brothers possiamo ritrovare i germi di tanti mali che ci affliggono ancora oggi.

Un decennio con la grande crisi

Sono passati dieci anni dall'evento simbolo della grande crisi finanziaria: era il 15 settembre 2008 quando i dipendenti della banca d'affari Lehman Brothers uscivano dal grattacielo aziendale con tutti i loro averi chiusi in una scatola di cartone.

A nessuno importa che già da un anno il mondo fosse lanciato verso il dirupo come un treno in corsa, tutti ci ricorderemo per sempre di quegli anonimi scatoloni e di quei finanzieri scamiciati precipitati dall'Olimpo della finanza all'inferno del lastrico.

Un anno prima era toccato a Northern Rock, istituto di credito britannico specializzato nel mercato immobiliare, avviarsi al fallimento. Intervenne la Banca d'Inghilterra, intervenne persino il governo di sua maestà ma ogni tentativo di salvataggio fu vano e la banca finì per dissolversi nella galassia imprenditoriale del gruppo Virgin.

Anche l'Europa, insomma, ha avuto il suo ruolo di prima donna nella commedia del secolo — come ha ben raccontato Stefano Cingolani nel suo com'è nata la grande crisi, il Foglio del 16 settembre 2018 — con gli stati e le banche ormai stretti in un abbraccio di mutuo soccorso da cui sarà molto difficile scioglierli.

Ci vorrebbe un grande accordo tra le principali monete che consentisse di bilanciare il ruolo del dollaro. Il che richiede una grande cooperazione internazionale, mentre, al contrario, si sparge solo il virus del protezionismo. Politici e ideologi populisti si gingillano con armi di distrazione di massa come la finanza selvaggia. [...] La realtà precede sempre le regole, il mercato ne sa una più dello stato. 

Cingolani delinea l'origine della grande crisi partendo dal presupposto che il contagio sia dovuto all'eccessiva centralità dell'America:

«una liberalizzazione asimmetrica e incompiuta che ha trasformato gli Stati Uniti nell'unico pozzo al quale attingere».

In soldoni, se l'Europa e l'Asia avessero allevato in casa un mercato finanziario al pari di quello americano, forse avrebbero ridotto il rischio di un contagio.

Di fronte ad un crollo improvviso dell'economia com'è stato quello del 2008, la ricerca spasmodica di un unico capro espiatorio ha finito per diventare la principale missione di molti, troppi fra osservatori ed esperti europei e non.

Mentre il governatore della Federal reserve Ben Bernanke, il responsabile della Fed di New York Tim Geithner e il segretario al tesoro Hank Paulson iniziavano a tessere la trama di quella rete che seppe salvare l'economia americana mettendo in continuità le presidenze Bush e Obama, di qua dell'Oceano non si assistette alla stessa concordia.

Quando salvammo Fannie Mae e Freddie Mac — due colossi del credito immobiliare, fra i principali produttori di titoli tossici — fu un weekend incredibile in cui fummo chiamati a prendere decisioni molto importanti in tempi strettissimi. Sui mercati c’era il panico. Se tu parlavi con qualcuno, persone competenti a capo di banche o fondi di investimento, sentivi la loro voce terrorizzata. Per la prima volta nella vita ebbi paura per il mio Paese e per la stabilità. Fu terribile. Sembrava di rivivere quello che avevamo provato dopo gli attentati dell’11 settembre.

Ben Bernanke, ripreso da il Sole 24 Ore

In Europa sarà il 2011 l'anno simbolo della crisi, con una data forse meno nota ma ugualmente destinata a passare alla storia: il 5 agosto.

L'Unione Europea indirizzò una lettera al governo italiano, presieduto da Silvio Berlusconi, nella quale condizionava l'intervento comunitario a sostegno del paese all'attuazione di drastiche riforme economiche.

La lettera Trichet - Draghi segna uno spartiacque tra due mondi non dissimile da quello segnato dagli scatoloni di Lehman. Prima del 2011, 53 italiani su 100 erano fiduciosi nell'Europa, nel 2018 ne rimangono solo 18.

L'Europa, forse più ancora della finanza, da quel momento ha vestito i panni del perfetto capro espiatorio che tanto avevamo cercato negli ultimi trent'anni e nell'euro abbiamo trovato la prigione migliore in cui sentirci incatenati.

A poco sono servite le massicce iniezioni di capitale con cui la Banca centrale europea dello stesso Mario Draghi ci ha salvato da noi stessi: per la gran parte dell'opinione pubblica l'Europa rimane un carcere, una costrizione fuori dalla quale potremmo pascolare in verdi prati.

«Salvammo le banche per salvare il paese e gli americani, ma non è stato capito da tutti».

Hank Paulson, sempre da il Sole 24 Ore

Negli scatoloni di Lehman e nei forzieri svuotati di Northern Rock albergavano già quei sentimenti di rifiuto e negazione della realtà che, a distanza di anni, conquisteranno la ribalta politica in mezzo mondo.

«L’origine va ricercata più indietro nel tempo. Un mix di decenni di insoddisfazione per stagnazione dei salari, diseguaglianze, la poca mobilità sociale. Certo la crisi finanziaria non aiutò ma non è stata il principale driver del populismo»

Ben Bernanke, sempre da il Sole 24 Ore

Di fronte all'addensarsi di nubi sempre più fosche sui cieli dei mercati internazionali, forse non esistono risposte univoche capaci di fugare la moltitudine di dubbi che affollano le menti e i cuori dei più. Rimane solo una domanda  da offrire a quanti predicano chiusure e oscurantismi: e se la risposta ad un liberismo asimmetrico e sbilanciato non fosse una politica illiberale che millanta sicurezze ma una politica liberale più etica e trasversale?

Forse la miglior risposta la diede Bejamin Franklin qualche secolo fa, ma ognuno può trovare la propria.

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