La casa del parco Morandi: dal villaggio all'abbandono, progettando il recupero

Ultima testimonianza del villaggio costituito dalle dimore degli operai della vicina fornace Morandi, il casolare è da dieci anni espropriato dal Comune, ma lasciato a sé stesso. L'architetto Antonio Huaroto, che si è fatto portavoce di un gruppo di tecnici e del desiderio dei residenti, ha in mano un progetto per recuperare l'edificio dandogli una nuova vita 

La casa del parco Morandi: dal villaggio all'abbandono, progettando il recupero

Un fitto fogliame rampicante, che ha colonizzato l’intera facciata destra dell’edificio, illude lo scorrere della vita. Le protezioni di metallo tengono lontano i passanti, macerie e finestre rotte danno una sensazione di vuoto e di un tempo, ormai, coniugato al passato. Eppure è lì, dopo oltre un secolo, all’interno di parco Morandi, affacciandosi su via del Giglio, come saggio che attende di raccontare la sua storia centenaria, c’è l’ultima casa rimasta in piedi di quello che era il cosiddetto villaggio Morandi.

Qui si faceva comunità

Nella seconda metà dell’Ottocento, con l’intenzione di dare il via all’edificazione di diverse fornaci industriali per la produzione di laterizi, nel Veneto si trasferirono i Morandi, una famiglia di imprenditori originaria del Canton Ticino, in Svizzera. L’omonima fornace a nord di Padova, al confine tra il quartiere Arcella e Pontevigodarzere, fu costruita nel 1898 per volere di Luigi Morandi, in un’area ricca di argilla e poco fuori dalla città. La struttura, iconica e riconoscibile con le sue ciminiere che rimandavano al modello Hoffmann, giaceva tra la ferrovia e il fiume Brenta, lungo la strada delle Boschette. Ma non fu l’unico intervento della famiglia svizzera che, per ospitare i lavoratori e i dipendenti, a partire dal 1906, decise di realizzare un piccolo nucleo abitativo, il villaggio, per l’appunto.

Casette semplici a schiera, esempi classici di architettura veneta che si possono con difficoltà scorgere nell’ultimo superstite ancora in piedi all’interno di parco Morandi: «Qui dormivano e mangiavano gli operai ed è stato un simbolo di vita e comunità, anche durante il dopoguerra, quando i residenti si trovavano attorno al pozzo, unica fonte di acqua in quell’epoca difficile – racconta l’architetto Antonio Huaroto, sensibile al recupero di aree e strutture dimenticate, soprattutto all’Arcella –. Vorremmo recuperarlo assieme a tutto il casolare perché è un’area che il Comune ha espropriato dieci anni fa senza ulteriori interventi, lasciando l’edificio alla mercé dell’incuria e del degrado. E’ di fatto abbandonato».

La sorveglianza degli alpini ha tamponato la situazione, assieme all’orto comunale lì accanto e il passare, a piedi o in bici, dei vari residenti sono le uniche forme concrete per dissipare la sensazione di abbandono e pericolo. Il villaggio operaio nacque senza troppe pretese e rispondeva al bisogno di far alloggiare la manodopera il più vicino possibile al luogo di lavoro. I fabbricati hanno resistito per anni fino alla costruzione dell’autostrada Padova-Milano che ha causato l’abbattimento di alcune casette. La tangenziale Nord, poi, ha acuito tale stato, portando alla quasi totale demolizione degli edifici e, con essi, ha creato un vuoto nella memoria: «Non c’è un vincolo monumentale che altrimenti avrebbe imposto il mantenimento della struttura così com’è, pertanto abbiamo pensato di demolire una parte della casa, ripristiniamo le caratteristiche rurali dell'architettura veneta con il porticato che ora non c’è più. In buona sostanza riduciamo la volumetria e avremo 120 metri quadri al piano terra e 100 metri quarti al piano di sopra, tutto openspace e con sale aperte; all’esterno riportiamo il pozzo anche solo come memoria di quello che ha rappresentato per gli abitanti».

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Un bike stop per i ciclisti e uno spazio verde e bio 

Nella vorticosa mente di Huaroto, tra innumerevoli bozze e disegni, il progetto è già pronto e concreto, ma soprattutto non è un virtuosismo la cui finalità è solamente limitata al ripristino storico e “nostalgico” dell’immobile. É un’iniziativa dal basso, mossa dal desiderio dei residenti del rione San Bellino e di chi frequenta il parco. Sono loro che sostengono il progetto di risanamento urbanistico e si sono rivolti al comitato Vivere bene a San Bellino, di cui Huaroto è coordinatore. Il futuro è uno spazio versatile, partendo dai servizi igienici per il parco Morandi, finora sprovvisto nonostante la vivacità della zona; al piano terra l’idea è di ospitare un “bike stop”, punto di ristoro e info-point per i ciclisti, sia padovani che turisti, sfruttando la ciclopedonale (l’altro sogno di Huaroto che pian piano prende piede) che da via Antonio da Murano, passando per San Bellino e zone verdi del quartiere, arriva direttamente al lungofiume del Brenta. Un percorso alternativo, una “via parallela” all’asse via Guido Reni – via Tiziano Aspetti destinato al passaggio di tram e macchine.
Per il primo piano, invece, sono già avviati contatti con associazioni che utilizzerebbero lo spazio per creare un micro-mondo “green”, attinente alla salute, ai prodotti bio, dialogando con l’orto stesso, o destinando un’area agli anziani e agli esercizi riabilitativi da continuare, poi, nel parco stesso.

Storia, fede e tradizione, poi, donerebbero un senso di continuità con il passato, creando un legame con il territorio: l’intento è di inserire, all’interno dei programmi annuali delle scuole del terzo istituto comprensivo Briosco, visite guidate affinché i ragazzi, osservando anche arnesi da lavoro che verranno recuperati, possano scoprire la storia e gli aspetti architettonici, unici nel Veneto, e l’importanza dell’educazione e della salvaguardia ambientale. E poi ci sono i gigli, il fiore tanto legato a Sant’Antonio che l’architetto Huaroto, vorrebbe piantare nella zona circostante per poi essere donati durante la rievocazione storica del transito del 12 giugno.

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Insomma, Antonio Huaroto, assieme ai collaboratori Marina Canapero, docente d’agraria, Vincenzo Montemitro, docente del Conservatorio Pollini ed Elena Paolin, è determinato e lancia un appello al sindaco Giordani: «Parlando con diverse imprese di ristrutturazione, la spesa per realizzare tutto questo si aggira sui 250mila euro. Con questo investimento e con questo progetto dal costo esiguo si darebbe finalmente un messaggio concreto di lotta al degrado in maniera intelligente. Mi rivolgo al sindaco Giordani, ma anche al vicesindaco Lorenzoni che, come detto in campagna elettorale con Coalizione Civica, è sensibile a queste tematiche. Qui in Arcella si è giocata una partita importante, e adesso il momento è positivo per creare davvero qualcosa. Con il recupero del casolare di parco Morandi noi interverremmo sul piano sociale, sul verde, sulla mobilità e sulla sicurezza: non servono telecamere, se c’è uno spazio vissuto da residenti, passanti e turisti».

Gianpaolo Barbariol: bisogna ridare dignità all'edificio

«La mia idea è sempre stata quella di ridare dignità all’edificio di parco Morandi e del ruolo che svolgeva all'interno della comunità. Fare di questa casa una sede per attività agricole o culturali, ma anche un presidio per poter raccontare la storia dimenticata del territorio». Gianpaolo Barbariol, ora in pensione, è stato per oltre 20 anni dirigente del settore verde a Padova e ricorda le fasi che hanno portato alla nascita dell’attuale area verde nel nord del quartiere Arcella e del primo tentativo di costruire un progetto attorno alla costruzione che si affaccia su via del Giglio: «L'amministrazione attuò un accordo di programma per la realizzazione di questo nuovo spazio all’interno di un percorso che non può dirsi ancora concluso perché è rimasto questo edificio a margine ed è in stato di abbandono.

Quel percorso voleva ridare valore e importanza, ma pian piano l’immobile è stato snaturato perché sono state fatte delle aggiunte rispetto all’architettura del Novecento, degli ampliamenti che andrebbero demoliti. Pensare a un progetto da cucire sull’ultima casa del villaggio Morandi potrebbe rappresentare un’occasione per una ricomposizione fondiaria di quell’angolo di parco che in parte è stata già avviata: verso Sud, infatti, ci sono campi segnati da dei filari e sono le testimonianze delle vecchie divisioni dei terreni che venivano messi a cultura. Primariamente quel terreno serviva per l'estrazione dell'argilla utile alla produzione della fornace; noi già nella fase progettuale avevamo pensato a preservare quest’area come testimonianza della particolare organizzazione agraria del terreno: è una cultura promiscua perché da una parte ci sono prati, dall'altra parte vecchie siepi con filari di alberi. Rappresenta il modello dell'agricoltura sostenibile del futuro sui cui noi del Parco Agro-Paesaggistico Metropolitano stiamo lavorando per portare questo paesaggio all'interno della città».

A fine novembre 2017, il casolare, però, è stato recintato. Porte e finestre dell’edificio che si affaccia sui binari della ferrovia, sono state sbarrate con grate metalliche dopo diverse segnalazioni dei residenti di movimenti e “bivacchi”. Barbariol, invece, insiste nel recupero dell’unità pensando proprio a un largo progetto “verde”: «Tra gli orti comunali e il confine con San Bellino c’è un’area dove la natura ha continuato a svilupparsi incontaminata: è una zona ricca di biodiversità con dei fossati ancora alimentati da acque e ci sono varietà di rospi e anfibi rari e particolari. Un ecosistema che andrebbe preservato perché prezioso per contrastare l’inquinamento o l’idea di cementificare. Casa Morandi attende un progetto forte come questo, in grado di coinvolgere una vasta dimensione e di attivare una reale rete ecologica».

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