Con una nuova speranza negli occhi a 19 anni

Dal Gambia Aniru Jaiteh è partito a 14 anni e, dopo un viaggio rocambolesco attraverso cinque paesi africani, ora vive a Este grazie allo Sprar, con cui sta cercando di costruirsi un futuro dignitoso e profondamente diverso da quello che avrebbe avuto nel suo paese

Con una nuova speranza negli occhi a 19 anni

Aniru Jaiteh ha 19 anni e nella sua vita ha vissuto così tante esperienze difficili che, neanche la penna di uno scrittore, potrebbe pensare di farle vivere tutte insieme a un unico protagonista.

Nato nella Repubblica del Gambia, uno dei più piccoli stati del continente africano ai confini con il Senegal, a soli 4 anni è rimasto orfano e, nonostante gli sforzi della nonna di dare un futuro a lui e a sua sorella, all’età di 7 anni ha dovuto lasciare la scuola per andare a lavorare nella bottega di un saldatore dal quale non ha mai ricevuto una vera paga, ma solo un pasto sicuro al giorno.

Negli anni la sorella ha sposato un senegalese che le ha assicurato un futuro e la nonna si è trasferita a vivere con lei. 
«Mentre lavoravo – spiega Aniru con lo sguardo fisso senza mai incrociare quello del suo interlocutore – vedevo i miei amici che andavano a scuola ed ero triste. Mi sarebbe piaciuto continuare gli studi, ma non avevo più né il tempo né le possibilità economiche. Ero un bambino solo, senza genitori, rassegnato a lavorare tutto il giorno in cambio di cibo».
Senza accorgersene Aniru si è ritrovato schiavo “libero” del suo datore di lavoro. La sera per strada ascoltava i racconti dei ragazzi più grandi che parlavano di una terra, l’Europa, dove si poteva vivere lavorando, guadagnando e costruendosi un futuro.

«Ero incuriosito – racconta – in me è nato il desiderio di partire, perché in Gambia la mia vita era senza futuro. La mia è una terra in cui si parla a bassa voce e ci si guarda le spalle perché una frase sbagliata è motivo per essere arrestati e per sparire nel nulla». Così un giorno a soli 14 anni ha intrapreso il viaggio verso la speranza di una vita normale in Europa. «Sono partito senza conoscere la destinazione ed era la prima volta che facevo un viaggio. Non avevo paura di essere da solo perché mi dava coraggio il percorrere la strada con altri africani».

Un viaggio a tappe non organizzato. In ogni stato ha dovuto imparare una lingua nuova e trovare chi poteva fargli ottenere una scheda telefonica per parlare con la sorella, trovare un posto dove dormire e passare il confine. Tutto, ovviamente, a pagamento e, se non aveva i soldi, Aniru lavorava fino a quando qualcuno decideva che era abbastanza per proseguire il viaggio. È andata così per circa un anno e mezzo e cinque nazioni diverse oltre al suo stesso paese: Senegal, Mali, Niger, Libia e Italia.

La vera paura è arrivata attraversando il deserto del Niger. In quaranta persone stipate su una jeep che, per quattro giorni, senza mai fermarsi, ha corso nel deserto lasciandosi dietro i corpi di chi non ce la faceva a causa della sete, della fame oppure dei cecchini nascosti ovunque dietro le dune. 
«Sapevo che le jeep che attraversavano il deserto potevano essere assaltate, ma non avevo idea di cosa fosse il deserto né cosa aspettarmi. Mi avevano solo detto di portarmi tanta acqua. Quando ho capito le condizioni del viaggio ho pensato che sarebbe stata la fine della mia vita. In quei momenti mi sono abbandonato a Dio. Ho visto per terra lungo la strada tante persone morte e ho temuto che quello che avevo intrapreso fosse un viaggio più grande di me».
Aniru è riuscito a sopravvivere alla traversata del deserto ed è giunto in Libia dove, non avendo soldi, ha iniziato a dormire per strada e a chiedere le elemosina per mangiare. «Trovarsi in questa situazione a soli 14 anni è stato difficile. Un giorno mi hanno puntato una pistola in testa solo perché chiedevo qualche soldo per mangiare e ho capito che bastava poco per morire: la mia vita era nelle mani di questo sconosciuto e per lui valeva meno di niente. In Libia ho avuto chiara la sensazione di non essere considerato come una persona, ma un oggetto».

Per fortuna questo tenace adolescente è riuscito a trovare lavoro per tre mesi in Libia. Non era retribuito, ma il suo “padrone” aveva la facoltà di decidere quando aveva lavorato abbastanza per poter pagare il viaggio e attraversare la nazione, arrivare a Tripoli e prendere la tanto agognata barca per le coste occidentali. «Quando sulla spiaggia – dice ancora incredulo – ho visto che non c’era una barca ma un gommone, ho pensato che non sarei mai arrivato in Italia. Ho pregato sperando che Dio mi proteggesse».
Oggi Aniru vive a Solesino ed è inserito nel progetto Sprar di Este. Grazie all’aiuto delle associazioni e della comunità ha trovato un lavoro, degli amici e sta provando a costruirsi una serenità interiore che, in questi anni, non ha mai avuto.

Non sempre l’inserimento è semplice. C’è chi lo chiama ancora “straniero” o “negro” a causa di pregiudizi che quasi sempre si dissolvono nell’istante in cui si è capaci di andare oltre il suo aspetto esteriore, si supera la diffidenza e ci si mette in ascolto della sua storie e dei suoi sogni. 

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)