Fra Ireneo Forgiarini. Il coraggio di passare dal Venerdì santo al mattino di Pasqua

Fra Ireneo Forgiarini. Il francescano “trasgressivo” che da quarant’anni, sui colli vicentini, fa “risorgere” i ragazzi dall’oscurità.

Fra Ireneo Forgiarini. Il coraggio di passare dal Venerdì santo al mattino di Pasqua

Vien facile, quasi spontaneo, parlare di Pasqua quando ci si ritrova sospesi tra cielo e terra. Quanto basta per salire qualche centinaio di metri dalla pianura, fin sulle amene colline tra Fara, Breganze e Colceresa, e trovarsi circondati da ulivi dall’atmosfera pasquale. Qui la primavera incalza con i suoi colori e profumi. I rintocchi delle piccole campane dell’eremo di San Pietro, sono parte millenaria della natura del luogo. Non mancano neppure le antiche note diffuse da casse musicali sparse e ben mimetizzate tra i cespugli del giardino circostante, volute dal francescano che da molti lustri ne è il custode e guardiano. C’è tutto quello che serve per ricordare l’antica Gerusalemme di duemila anni fa, e volendo anche quello che è stato lo spirito del francescanesimo delle origini.

Il “benvenuto” di Ireneo, frate Minore di 69 anni, friulano di Gemona, che da quarant’anni ha scelto di mettere radici nel vicentino, come eremita e operatore sociale, sa di fresco quanto l’aria che qui si respira. «Se questo è ciò che sentite – dice fra Ireneo Forgiarini – è un bel regalo! Io qui sono solo il custode della vigna e degli ulivi del Signore…». Custode e francescano dall’anima eremitica, come educatore sociale piantato nella realtà. Un frate diviso a metà, dopo quarant’anni di permanenza tra queste colline, il suo nome qui fa storia: «Se sono ancora qua, è tutta colpa di quello lassù!», ammonisce, puntando il dito verso l’alto. E non si fatica credergli, visto che i frutti spirituali – oltre che naturali – sono soprattutto umani. Poco distante dall'eremo di Mason, sorge la fraternità e comunità terapeutica Cà delle Ore di Breganze, che i frati francescani veneti con l’intuito di Ireneo e fra Beppe Prioli (fra Lupo), vollero fondare negli anni Ottanta per accogliere ragazzi e persone in difficoltà.

«Allora non fu certo facile costruire quello che oggi si vede. Mi scontravo con la paura e la diffidenza dei locali, nell’avere sotto casa dei “balordi”, come venivano visti i carcerati e drogati di allora. Eravamo agli albori delle prime comunità terapeutiche – ricorda Ireneo – Oggi, decenni dopo, il tempo e l’impegno dei volontari, operatori e di tutti gli uomini di buona volontà che sorreggono l’opera ha fatto da livella, e in paese ci amano tutti», tanto che da anni la comunità è divenuta punto di riferimento sociale. Quello che veniva visto come uno spazio di reclusione, è stato per la maggior parte dei ragazzi che sono passati di qua, un mezzo di liberazione dalla dipendenza: «Una resurrezione umana! – aggiunge il frate – Ma non mi sento speciale... sono un semplice frate “fuori dalle righe”, con una vena di trasgressione, da cui non riesco a liberarmi. E questo mi concilia con me stesso, tanto che ai miei superiori dico spesso di portar pazienza con me. In fondo, anche la Pasqua è un atto “trasgressivo” di Dio verso gli uomini!». La domanda a questo punto sorge spontanea: quanto è complicato far convivere queste sue diverse anime? «L’anima – risponde lui – è una sola, mentre gli sforzi sono diversi. Così per uno come me, che ha scelto di vivere quassù, l’isolamento dal mondo non è affatto una forzatura, semmai è una felice scelta. Ci sono abituato, lo cerco, lo voglio e sento il bisogno di questo beato silenzio. Come provo il desiderio quotidiano di tornare nel mondo, immergendomi nelle vite dei giovani della comunità e dei progetti gestiti dall’associazione Sankalpa che ha le radici di fronte all'eremo, da dove partono iniziative di solidarietà rivolte al territorio, come al resto del mondo».

C’è molto del francescanesimo delle origini nel pensiero di questo longilineo frate dal facile sorriso, pacificamente trasgressivo come fu il suo maestro, Francesco di Assisi. A questo paragone, eccolo risponde con il suo solito sorriso: «A Dio piacendo, continuerò a occuparmi di questi luoghi di resurrezione e redenzione». Intanto, dal piccolo eremo che fra Ireneo ha scoperto quasi per caso una mattina di tanti anni fa, girando da giovane questuante con la vespa, avvolto nei rovi e con i muri cadenti tale da diventare una folgorazione, oggi escono inaspettate note e parole del Pater Noster in aramaico, che permeano l’atmosfera di misticismo che unito alla visione degli ulivi, ci riporta agli ambienti pasquali della Gerusalemme di duemila anni fa.

Qui spesso c’è un viavai di volontari, fedeli e camminatori, mentre con la pandemia il luogo è tornato alla sua austerità eremitica che tanto piace a Ireneo: «Questa pandemia ha il suo lato oscuro e paradossale, anche se credo che l’uomo da anni soffra di una pandemia ben più profonda e occulta, frutto del materialismo individuale e sociale che non sta risparmiando neppure il clericalismo religioso nostro, che ha ridotto il messaggio evangelico a puro idealismo. Quando invece il Gesù risorto è libertà personale dalle cose materiali». Quella “roba” cui siamo tutti aggrappati? «Proprio quella “roba” là, da cui non riusciamo a staccarci, che diventa la pietra del sepolcro che ci portiamo dentro!».

«Oggi preti e fedeli si dicono preoccupati per la difficoltà di celebrare i riti pasquali, quando il rito più completo e genuinamente pasquale, resta quello di sgombrare il cuore dall’attaccamento alle cose di ogni giorno. Ecco perché voglio credere che la pandemia faccia parte di un grande “rito” provvidenziale, che viene offerto come opportunità per credenti e non, per ritrovare la leggerezza della vita. “Basta che osserviate gli uccelli del cielo e i gigli del campo…” sta scritto nel Vangelo. Il messaggio di questa Pasqua “speciale” semmai, è il non arrendersi alla tristezza. Al buio delle cose. Molti di noi, anche di noi religiosi, sono spesso ancorati al Venerdì santo, senza voler uscire dal sepolcro dove si sentono sicuri, nonostante la luce che filtra dall’esterno».

Ma la fede non è scontata. «So bene quanto sia difficile credere nella Pasqua, e ce lo dimostra l’atteggiamento dei primi discepoli. Facciamo ancora molta fatica a credere nella resurrezione. Oggi poi ci sentiamo come in un perpetuo Venerdì santo, anche se tra le lacrime possiamo comunque intravvedere la potenza del Risorto. Quella sua bellezza che torna anche in questa “Chiesa malata e ferita”, come asserisce papa Francesco, nella quale i sepolcri di molti uomini e ragazzi, grazie anche ai miei collaboratori, rivedono la luce nuova di ogni giorno».

Ragazzi e uomini che Ireneo vive «come figli e fratelli d’anima, entrando nel loro buio, aiutandoli ad attraversare la notte umana, fino a vedere la luce del mattino della resurrezione che spunta dai loro stessi occhi. Ho la consapevolezza d’aver imparato su Dio molto più da questi occhi, che in tutti i libri di teologia letti fino ad ora».

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