La via dimenticata. Sulle strade dei profughi che attraversano la Bosnia sognando l'Europa

Le notizie che leggo sono contrastanti e non sufficientemente aggiornate. Il campo verrà chiuso (non a breve). Il campo è già stato chiuso (in un imprecisato arco temporale di dicembre). Il campo doveva essere chiuso a dicembre, ma s’è deciso di farlo più in là. E i profughi? Trasferiti in altri campi, uno a Sarajevo e uno a Mostar, stando ad articoli che si leggono online.

La via dimenticata. Sulle strade dei profughi che attraversano la Bosnia sognando l'Europa

Il mio obiettivo è consegnare delle coperte e il campo è quello di Vucjak, a pochi kilometri da Bihac, non lontano dal confine tra Bosnia e Croazia

Il Mullah della Moschea Fehtija di Bihac mi conferma che il campo è già stato chiuso. Mi racconta che la situazione era insostenibile, per i migranti e per la città. 

"Qui ne erano piene le piazze. La polizia li portava o riportava nei campi. Loro scappavano e tornavano qui, in centro città. Provengono da molti paesi, tutti quelli che puoi enumerare dall'India (Pakistan, Afghanistan) al Marocco. Quelli che attraversano le montagne lasciano immondizia nei boschi. Occupano abusivamente le abitazioni o le baracche chiuse che trovano. Non di rado queste, per i fuochi accesi, prendono fuoco." 

Al di là della testimonianza ritengo che la cosa migliore sia verificare di persona lo stato odierno del campo.

Un campo possibilmente va nascosto. Come la verità? Così lo collocano tra le colline, a circa 8 kilometri dalla città. Ci si arriva dapprima per mezzo di una strada asfaltata tra colline spoglie e brevi tratti boschivi, poi per mezzo di una strada sterrata di un paio di kilometri. Non è immediato individuarlo. Soltanto con controlli incrociati io e la persona che mi accompagna riusciamo a localizzarlo senza chiedere indicazioni a quanti incrociamo lungo la strada. Il cartello Vucjak c’è, ma ben prima dei gruppi sparsi di case da cui si diparte la strada sterrata che conduce al campo. 

Proseguendo lungo quest’ultima scorgiamo, a circa duecento metri da noi, delle persone con fucili e giubbe fosforescenti, che ci ricordano quelle dei poliziotti visti la sera prima davanti a una caserma. Ci chiediamo se sia il caso di proseguire. Decidiamo di sì. Al limite ci faranno indietreggiare. Avvicinandoci constatiamo che effettivamente reggono dei fucili, ma non sono poliziotti, sono cacciatori. (O miliziani, come mi suggerisce un militare di professione più tardi). Ci sorridono. Noi a loro. Nel far questo siamo già dentro il campo, sul terreno ove sorgeva. 

Ciò che ne resta oggi è poco meno che una discarica. Con al centro una piccola costruzione in muratura parzialmente abbattuta e data alle fiamme. Discarica su ex discarica parrebbe (così avevo letto e così, chi è con me, crede di poter confermare per via di tubi di sfiato che individua nel terreno). Immondizia per terra, immondizia sugli alberi. Scarpe, spesso spaiate, rasoi, spazzolini, pettini, berretti, coperte in pile, scatolette e bottiglie di plastica. A giudicare dalla mole dell’immondizia affiorante e dai tubetti di dentifricio ancora pieni il campo deve essere stato sgomberato da poco. Il freddo è pungente. Dopo solo un quarto d’ora di permanenza perdo completamente la sensibilità alle dita. Mi chiedo come un essere umano possa restarci a lungo. Si legge che accanto vi siano anche campi minati, ma questo non ho avuto modo di verificarlo. Alcune persone del posto negano la cosa, ma online trovo articoli che affermano il contrario.

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Se i migranti non sono qui, allora dove sono? Il Mullah di Bihac sostiene siano stati spostati a Sarajevo e a Tuzla, il che in parte conferma, in parte contraddice, notizie riportate online. 

Tuzla era contemplata come tappa del mio viaggio, dunque il campo decido di cercarlo lì. Mi batte il cuore mentre mi avvicino alla sede della Croce Rossa locale, che eleggo a mia fonte di informazioni. Una delle due volontarie che mi accoglie afferma che non ci sono campi a Tuzla: 

Se ne sta parlando, si sta adibendo un vecchio ostello ad accoglierli, ma per ora campi non ce ne sono. Nessuno li vuole e nessuno vuole accollarsi il problema. Non il governo. Per ora ad occuparsene sono solo organizzazioni non governative. Migranti qui? Certo che ce ne sono e sono un serio problema. Li trovi tutti alla stazione. Stanno lì. Noi forniamo loro servizio di primo soccorso, pasti caldi, abiti e coperte. Alcuni di loro erano stati a Bihac, ma poi sono tornati indietro. Stanno meglio qui.”

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Mi reco dunque in stazione per verificare quanto affermato dalla ragazza. Fingo di cercare gli orari della stazione e per farlo entro in stazione e fotografo i tabelloni degli orari. Torno poi sul piazzale e chiedo al mio compagno di viaggio di porsi davanti a me e spostarsi al mio tre per riuscire a scattare qualche foto senza dare nell’occhio. Il divario tra l’interno ordinato e candido della stazione e l’esterno balza agli occhi. All’esterno i migranti, che dall’aspetto suppongo provenire da Afghanistan, Bangladesh e India, dormono in vere e proprie tende da campeggio, accendono fuochi, chiacchierano, fumano e consumano pasti. In piedi o seduti a terra. Sono tutti uomini, giovani o di mezza età. Non è chiaro perché abbiano eletto Tuzla e la stazione come luogo in cui attendere tempi migliori per compiere il loro viaggio verso l’Europa.

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“Sei andata in stazione? Li hai visti?” Mi chiede un albergatore con cui scambio due parole. Annuisco. “Stanno qui e non fanno nulla. Io lavoro dalla mattina alla sera. Mio padre mi ha insegnato che gli uomini si dividono in due gruppi. Quelli che lavorano e quelli che non lo fanno. Questi non fanno nulla. Il problema è che li bloccano alla frontiera con la Croazia e a quella con l’Ungheria. Sono rigidissimi. Non passano. Allora i migranti restano tutti qui. Lo capisci per chi è un problema? Non per i media, non per i giornalisti. E’ un problema per la gente. Siamo esasperati. E’ pieno di siriani. Perché bombardano il loro paese? Spero la smettano così se ne tornano a casa.”.

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Alle volontarie della Croce Rossa chiedo se sappiano dove siano i nuovi campi che hanno sostituito quello di Bihac. “Non ce ne sono a Tuzla” - ribadisce una delle due. E’ riluttante, ma alfine riesco ad avere da lei il nome del campo di Sarajevo, del quale avevo effettivamente letto. Mi conferma poi che ce ne dev’essere uno anche a Mostar. 

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Dopo aver consegnato le coperte alle Croce Rossa di Tuzla (col timore di trovare chiusa la Croce Rossa di Sarajevo, così come lo era quella di Bihac) proseguiamo il nostro viaggio verso Sarajevo, alla ricerca del campo di Ušivak. Questo dista poco più di 20 km dalla città. Anche in questo caso, perlomeno dapprima, non è facile individuarne la posizione. Un cartello che riporti la scritta Usivak non si incontra. Percorriamo innumerevoli strade, strette e a volte sterrate per riuscire ad individuare quella giusta. Indispensabile l’uso incrociato di più informazioni. Su tutte ce n’è una che però non inganna e accomuna questa ad altre realtà: quando ti avvicini a un campo o analoga struttura inizi a incontrare un flusso interminabile di migranti a piedi o lungo eventuali binari, con zaini e talvolta coperte (ripiegate o a mo’ di mantello). Seguendo il flusso arriviamo davanti ai cancelli di Ušivak. Non ci sono altre auto, solo la nostra e il cancello è semichiuso. Gli ospiti del campo escono a piedi e proseguono la loro strada. Non si curano della nostra auto parcheggiata lì, non la guardano nemmeno. Alcuni di loro, incrociati per strada, stazionavano alla fermata dell’autobus, forse diretti a Sarajevo. Al nostro ritorno, infatti, non ci sono più. Ai cancelli di Ušivak scattiamo qualche foto. Poi tentiamo di entrare, ma una guardia ci ferma. Riusciamo appena a intravedere qualche container, poi capiamo che è il caso di allontanarci e farlo alla svelta.

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Da Sarajevo ripercorriamo la strada fino a Bihac, via Travnik. A Bihac torniamo a cercare il presunto campo di Bira, indicatoci giorni prima dal Mullah, ma che non ci era stato possibile individuare. Approfondendo capiamo il perché: non si tratta di un campo, ma di una ex fabbrica adibita a ospitare i migranti. Impostando la nostra ricerca su di un grande capannone, riusciamo a individuare di quale si tratti. Anche in questo caso sono sempre più frequenti i migranti che si incontrano avvicinandosi all’ingresso, sul quale è affisso un cartello che riporta la bandiera europea. 

Quell’Europa che non li vuole, affigge poi i suoi cartelli agli ingressi.

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Ora che la geografia dei campi di Bihac ci è chiara, decidiamo di varcare il confine a Velika Kladuša, altro confine che ospita dei campi. Lungo la strada incrociamo ben presto altri migranti, a piedi o lungo i binari. La ragione è che ci stiamo avvicinando a Ostrožac na Uni ove, ben presto ci è chiaro, è collocata un’ennesima struttura di accoglienza, questa volta non di grandi dimensioni e in muratura.

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Stessa cosa a Polje, ove il campo si trova lungo la strada principale in direzione di Velika Kladuša, a sinistra, accanto a due pompe di benzina. Accostiamo la macchina nel piazzale antistante il campo. A differenza di quanto accaduto a Ušivak, qui i migranti circondano immediatamente la nostra auto, guardano cosa ci sia nel bagagliaio (per l’occasione abbiamo tolto i sedili posteriori e tutto ciò che il bagagliaio contiene è a vista). Sorridono. Nessuno tocca l’auto. Vorremmo scendere e regalare loro tutto ciò che ci rimane, ma temiamo che, non avendo noi poi più molto, si possano scontrare per contendersi quel poco che abbiamo. Decidiamo così di allontanarci, spostando lentamente l’auto. Alcuni di loro iniziano a correre e inseguirci, sorridono, uno di loro alza la maglia a mostrarci l’addome. (A posteriori mi sono chiesta se volesse indicarmi delle ferite inferte). A malincuore, sia perché per noi è giorno di rientro, sia perché non riusciamo a prevedere cosa potrebbe accadere se scendessimo, decidiamo di proseguire verso il confine. Lungo tutta la strada è un esodo di migranti. Alcuni sono accampati per terra, altri in crocicchi, altri in cammino lungo la strada.

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Nei pressi della frontiera effettuiamo anche un’altra ricognizione: visionare le sponde del fiume Glina, altro luogo di transito e purtroppo talvolta decesso di migranti. Il fiume si intreccia al confine per cui non è facile trovare un punto dello stesso che sia accessibile restando unicamente in Bosnia. Studiando bene la cartina troviamo uno dei due punti in cui questo è possibile e lo raggiungiamo. La strada arriva fino a un centinaio di metri dal fiume, ove è sbarrata da un cancello.

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Attraverso un campo arato il fiume sarebbe agevolmente raggiungibile a piedi. Da dove ci troviamo si scorge lo scorrere tumultuoso del corso d’acqua. Leggo che alcuni muoiono travolti dall’acqua. Altri probabilmente vengono invece sorvegliati e respinti in altro modo dalle guardie di confine che lo presidiano (Una fonte militare sostiene che il confine sia costellato di cecchini e che di lì non si passi). 

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A Velika Kladuša ci impieghiamo circa due ore e mezza per varcare il confine. I controlli dei documenti procedono lentamente. Nel mentre, affianco alle macchine, scorrono persone che vendono cd masterizzati, libri o barattoli di miele. Si direbbero più zingari che migranti. Ci sono anche donne e bambini. Accanto a queste persone, di carnagione più chiara, ce ne sono altre di carnagione più scura, che siedono, coi loro zainetti, sui guard rail. Uno di loro scende dal bosco. All’arrivo di una pattuglia della polizia uno di questi inizia a gridare qualcosa del tipo: “Policija pri pri” (questo il suono che percepisco e non riesco ad intelligere). Al suo grido altri migranti scappano. Lui scavalca il guard rail, cammina carponi sull’erba, poi vi ci si sdraia a pancia in giù e infine si dilegua tra le sterpaglie. Lo scorgo appena perché ne ho seguito il percorso con lo sguardo, altrimenti, lì in mezzo, non riuscirei a individuarlo. Passata la pattuglia, torna alle soglie dell’immensa cancellata che immette in frontiera, quella che davvero ha tutta l’aria d’essere il confine tra l’Europa e il resto.

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Una volta oltrepassato il confine di Velika Kladusa, di migranti non se ne vedono più. A una pompa di benzina, approfittando del fatto che il benzinaio parli bene l’inglese e che la frontiera non sia lontana, glielo faccio notare: “Di là è pieno di migranti, qui non se ne vedono.” “Maybe into the wild”- è la sua risposta asciutta, alzando le spalle. 

Al rientro in Italia incontriamo soltanto un’ulteriore frontiera. Quella tra Slovenia e Italia. Un controllo veloce dei documenti e procediamo. Nulla a che vedere con gli sbarramenti tra Bosnia e Croazia. 

In Bosnia il fenomeno migratorio pervade il paese. Città più o meno grandi sono attraversate da migranti. “Siamo un paese di transito”- dice l’albergatore Naim. Fin lì evidentemente, visto che i migranti poi rimangono. All’improvviso l’intera Bosnia mi sembra piccola e attraversata da fantasmi. Fantasmi che l’Europa respinge, salvo poi affiggere le proprie bandiere umanitarie ai cancelli dei purgatori che li ospitano. Fantasmi che ti chiedi perché dalla Bosnia non vengano a loro volta respinti. A questo non trovo altra spiegazione che l’esistenza di finanziamenti per accollarsi il problema. Perché mai la Bosnia dovrebbe farsi carico di quella che è una vera e propria piaga sociale se non per un qualche ritorno economico?

Ciò che mi resta del viaggio è la netta sensazione che il fenomeno migratorio sia di proporzioni che da remoto non riusciamo a immaginare, che della rotta balcanica non se ne parli a sufficienza e che non vi sia nessuna presa di posizione seria dal punto di vista umanitario e politico da parte dei governi.

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