Mons. Edmond Djitangar e Luigi Bertin: una lunga amicizia

Si conoscono da moltissimi anni mons. Edmond Djitangar e Luigi Bertin. Il primo è l'arcivescovo della capitale del Ciad, N’Djamena. L'altro è un infermiere in pensione di Campolongo Maggiore

Mons. Edmond Djitangar e Luigi Bertin: una lunga amicizia

Hic sunt leones. Le antiche cartografie non lasciavano spazio al dubbio: lì, quando la costa bagnata dal Mediterraneo diventava uno dei tanti miraggi africani, abitavano i leoni e null’altro. A sfogliare la grande stampa nazionale non sembra poi cambiato molto, d’Africa non si parla se non quando una pattuglia di disperati naufraga in quello stagno che chiamiamo mare. Poco si parla anche della Repubblica del Ciad. Della capitale, N’Djamena, è arcivescovo mons. Edmond Djitangar. Nei mesi scorsi è stato ospite per alcuni giorni a Campolongo Maggiore, nella casa di Luigi Bertin. Una presenza non così insolita nel piccolo paese del Veneziano, dove tutti conoscono l’amicizia tra l’anziano infermiere in pensione e il vescovo africano.

Missionario per caso, Bertin ricorda il suo primo viaggio in Africa con l’emozione di chi ci ha lasciato il cuore.

«La prima volta sono stato via per sei mesi; un amico missionario mi aveva chiesto di accompagnarlo, perché gli serviva qualcuno che dirigesse dei lavori di costruzione. Ricordo però che uomini non lavoravano, perché temevano il capo carismatico: quando andavo a vedere un cantiere, gli uomini degli altri incrociavano le braccia».

È il 1988 e Bertin – che in Italia, ha lasciato moglie e figli – si scontra subito con la realtà di un popolo rimasto ancorato a valori tribali antichi. «Papà Sibai, uno degli operai, in una giornata aveva messo solo tre brick, mattoni. Mi sono arrabbiato, sono andato in Chiesa e me la sono presa anche col Cristo: “Perché stai appeso lassù, non vedi che non lavorano?”. Volevo tornare a casa, mollare tutto».

Ma la Provvidenza aveva altri progetti per Luigi, e non tardò a manifestarli. Di fronte alla possibilità di denunciare i manovali alla polizia, Bertin preferì tentare di telefonare a casa per annunciare quello che ormai considerava un prossimo rientro in patria. Da mesi, le comunicazioni con l’Europa erano sporadiche, se non impossibili a causa di un prolungato sciopero delle poste e per la difficoltà dei collegamenti telefonici; ma Luigi riuscì a prendere la linea. Le sofferenze e le difficoltà dovute al mondo tribale, con i suoi ritmi e le sue usanze, si sciolsero in un pianto infinito.

Ecco, nella voce e nel conforto della moglie lontana, Luigi Bertin aveva trovato la forza di ricominciare. Voleva tornare di corsa in cantiere, ma l’amico missionario gli disse: «Dato che tu hai preso la linea, provo anch’io: sono qui da nove anni e non ci sono mai riuscito». E non ci riuscì neanche quella volta. Quel telefono ammutolito fece da spunto, all’amico missionario, per una lezione che Luigi Bertin non dimenticherà mai. «Ecco cosa mi disse: “Parli, Luigi, della tua grande devozione allo Spirito Santo. Bene, lo Spirito Santo ha bussato tre volte a casa tua e tu gli hai chiuso la porta: quando sei andato a vedere i lavori il capo carismatico era Sibai, e tu hai chiuso la porta; quando nel pomeriggio gli altri lavoratori sono venuti alla missione cattolica per scusarsi che non avevano lavorato, tu hai chiuso di nuovo la porta. La terza volta, finalmente, quando hai deciso di telefonare a casa invece che alla polizia per denunciarli, hai aperto la porta allo Spirito Santo».

Tornerà altre 22 volte in Africa, Luigi, affascinato dalla fede semplice dei ciadiani, che a ogni passaggio della messa ripetono “morotà”, credo. Sarà in uno di questi viaggi che incontrerà Edmond Djitangar. 

«È difficile essere cattolici in Ciad – racconta l’attuale vescovo di N’Djamena – Una volta eravamo una minoranza tranquilla, impegnata nel sociale, ma negli ultimi dieci anni la chiesa ha preso consapevolezza del suo ruolo di partecipazione attiva alla vita dello Stato». 

È impossibile dare un’età a mons. Djitangar, con lui il tempo è stato clemente imbiancando appena le basette e lasciando immutata l’infinita profondità del suo sguardo, due occhi neri che si illuminano quando parla del Ciad. «Si vede che stiamo andando sempre più verso una dittatura, ne eravamo usciti nel Novanta e stiamo ricadendo in una situazione analoga che fa finta di essere un potere democratico ma non lo è. La gente non può esprimersi, c’è una censura feroce, si può scrivere quello che si vuole ma non serve a nulla perché quasi nessuno sa leggere. Così noi abbiamo scelto la radio, per poter parlare direttamente alla gente. Ci sono quattro radio diocesane che sono molto ascoltate, più di quelle dello Stato, e tramite queste cerchiamo di far capire che la vita morale sta perdendosi. La gente non conosce i propri diritti, e così noi cerchiamo di educare la gente a resistere».

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