Santissima Trinità *Domenica 4 giugno 2023

Giovanni 3,16-18

Santissima Trinità *Domenica 4 giugno 2023

In quel tempo, disse Gesù a Nicodemo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».

Certe idee son difficili a morire. Lo diciamo a proposito degli altri: meglio starsene lontani! E lo diciamo a proposito anche di Dio, il totalmente altro da noi. Meglio tenerselo buono, a distanza di sicurezza. Non si sa mai! Lo pensavano e lo insegnavano così al Tempio quelli del sinedrio, a cui apparteneva Nicodemo. Del resto, il salmo 29 lo diceva chiaro: «La voce del Signore è forza, la voce del Signore è potenza. La voce del Signore schianta i cedri del Libano. Fa balzare come un vitello il Libano, e il monte Sirion come un giovane bufalo» (Sal 29,4-6).

Che altro può allora aspettarsi Mosè che «di buon mattino salì sul monte Sinai, come il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano» (Es 34,4)? Solo bastonate e comandamenti, visto che il suo popolo, alimentato per anni a miracoli da Dio, improvvisamente gli ha voltato le spalle per mettersi nelle mani di un vitello d’oro! 

E invece, «il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore» (34,5), quel nome che gli ebrei non possono pronunciare, pena la morte istantanea. Quel nome, che, però, Mosè all’inizio di tutta la sua avventura era riuscito a strappargli al roveto ardente: «Io sono colui che sono, Jaweh» (2,4). Dio gli aveva detto di chiamarsi così. Sembrava un gioco di parole che cadono su se stesse, un nome per non dire nessun nome, ma a Mosè quel nome era servito come grimaldello per vincere le resistenze del faraone e portare il suo popolo in libertà, oltre addirittura le acque del mare. Che sia così anche adesso?

«Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà”» (34,6). La reazione di Mosè è più che comprensibile: «Si curvò in fretta fino a terra e si prostrò» (34,8). Ma le parole parlano chiaro! Quel Dio altissimo, sul monte frantuma ogni sua onnipotenza, abbassa il voltaggio della giustizia e si fa litania infinita di accondiscendenza, rosario di tenerezza, attenzione più che umana, catena di parole tutte da assaporare, una ad una. Che sia vero?!

In effetti «Dio ha tanto amato il mondo – confida nella sera che scende Gesù a Nicodemo – da dare il Figlio, unigenito» (Gv 3,16). E quindi? Quindi, Dio non è il motore immobile dei filosofi e neppure la fantasia religiosa, creata a mo’ di consolazione di tutti i dolori umani. Dio ha un cuore, un cuore che ama e che soffre per ogni nostra sofferenza! Quel figlio, dato dal Padre… «sono io, che parlo con te!» (4,26) dice Gesù alla Samaritana. Un Cristo in carne e ossa, «mite e umile di cuore» (Mt 11,28). Figlio di Dio fatto «figlio dell’uomo», mani e piedi bucati, cuore lacerato. E non dai nostri peccati, ma dall’amore a profusione, che versa su di noi. 

Infatti, «Dio – confida Gesù a Nicodemo – non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Più che un poliziotto attento al codice, come noi continuiamo a credere, Dio è un Padre che non si vergogna di avere figli come noi, gente di dura cervice. Anzi, con una pazienza infinita egli ci sa compatire: capisce le nostre resistenze e ci aspetta, ci rispetta e ci perdona, un po’ come fanno tutti i padri della terra, anche quelli «cattivi» (Lc 11,13), con i loro figli. 

«Chi crede in lui non è condannato» (3,18) – sottolinea Gesù a Nicodemo – anzi ne benedice la grandezza d’amore: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dei padri nostri. Benedetto sei tu che penetri con lo sguardo gli abissi e siedi sui cherubini. Benedetto sei tu nel firmamento del cielo» (Dn 3,52.55-56). «Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! – afferma il salmo – Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali, si saziano dell’abbondanza della tua casa: tu li disseti al torrente delle tue delizie. È in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce» (Sal 36,8-10). Bellissimo!

È, piuttosto, chi non crede in lui che si condanna da solo. Infatti, «non credere nel nome dell’unigenito Figlio di Dio» (Ivi) significa rassegnarsi al niente che siamo, rinunciare alle vertigini d’aquila che lui ci insegna a fare nei cieli di casa nostra e ridursi a talpe del deserto più desolato. Non credere in lui spegne l’«abbà Padre», che quotidianamente vagisce dentro di noi nostalgia di paradiso. 

E, allora, «se ho trovato grazia ai tuoi occhi – sillaba piano Mosè da sotto gli stracci in cui si è nascosto – se ho trovato grazia ai tuoi occhi, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì, è un popolo di dura cervìce, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato: fa’ di noi la tua eredità» (34,9)

«La grazia del Signore Gesù Cristo – si premura di aggiungere subito Paolo – l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2Cor 13,13). Nell’abbondanza più grande, oltre ogni paura, sicuri che «il Dio dell’amore e della pace sarà con voi» (13,11-12). E voi «sarete raggianti» (Sal 34,6), proprio come era Mosè tutte le volte che sul monte stava con Dio, abbagliante della sua bellezza.

frate Silenzio

Sorella allodola

Solo a colpi di luce
Dio guarisce le nostre tenebre

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