V Domenica di Quaresima *Domenica 21 marzo 2021

Giovanni 8, 1-11

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». 
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

Orientati alla misericordia

Ai tempi di Gesù, per la celebrazione della Pasqua, arrivavano a Gerusalemme decine di migliaia di persone al punto da, come ritengono gli storici, far raddoppiare il numero degli abitanti della città. Molti di loro venivano da lontano, come il caso dei greci che ci presenta il Vangelo di questa domenica. Non sappiamo se fossero ebrei abitanti in Grecia e tornati a Gerusalemme per il culto o pagani convertiti all’ebraismo. Giovanni evidenzia la loro domanda, il desiderio che li sospinge ad avvicinare Filippo, uno dei discepoli dal nome greco, il quale, a sua volta, consulta Andrea (altro discepolo dal nome greco) per poi portare a Gesù la loro richiesta: «Vogliamo vedere Gesù».

Si sente spesso dire, anche tra preti, che viviamo un tempo in cui c’è una profonda disaffezione alle cose della fede. Questo modo di giudicare la realtà esiste da parecchi anni – personalmente lo sento dire fin da quando ero adolescente – ma a ben guardare, forse è più diffusa la disaffezione alla Chiesa e a ciò che essa propone, che alla fede vera e propria.
La gente – chi è considerato essere “lontano” dalla fede o dai luoghi di culto, chi si fa vivo solo una volta all’anno o per qualche occasione particolare – è come i greci del Vangelo, continua a cercare risposta alla stessa domanda: «Vogliamo vedere Gesù». Queste persone, nelle nostre comunità o nel comportamento dei credenti, non sempre trovano risposte e testimonianze convincenti, correndo così il rischio di mettersi a vivere altre esperienze, che spesso deludono le aspettative di serenità, non donano forza e non fanno crescere la propria responsabilità.

Mi piace sottolineare, a questo proposito, come Filippo e Andrea, nonostante i tentennamenti iniziali, ci mostrino il compito di ogni apostolo, di ogni credente: portare “i greci” a incontrare Gesù. Più che lamentarci del fatto che la gente non frequenta le nostre chiese dobbiamo farci una domanda: la nostra vita di preti e religiosi veicola l’incontro con Gesù? Le nostre parole, il nostro modo di celebrare, di pregare e di spendere il tempo e il denaro, così come la nostra pastorale, il modo di reagire alle difficoltà del vivere o il nostro modo di vivere la carità, sono testimonianza e aiuto per le persone del nostro tempo a incontrare Gesù?
Un figlio che vede come vivo il matrimonio, i miei rapporti familiari, le mie parentele, un figlio che mi sente parlare dei miei colleghi di lavoro o dei miei vicini vede un po’ di Vangelo presente in me?
E qual è il segno che rivela e distingue la presenza di Gesù?
Dalla brevissima parabola narrata da Gesù, capisco che il segno della sua presenza non si manifesta in nessun tono trionfale, né utilizza imposizioni o pretese di umiliare con la propria ragione, né cerca il palcoscenico.
Ciò che glorifica Gesù è il modo nuovo di annunciare con la sua testimonianza, la presenza di Dio. Dio non sta nella capacità di imporsi, ma nel proporsi e nel donarsi, e nel continuare a farlo anche quando il dono fatto non viene capito, accolto, o quando viene ignorato, deriso, disprezzato.

La parabola del seme che muore insegna a chi vorrebbe dare testimonianza a Gesù, a prendere ogni giorno le distanze dalla propria volontà di potere e di efficacia, quella che nasce dal cuore e si manifesta nei modi. Essere come il seme che muore è scegliere di non far coincidere la validità della propria vita con il successo raggiunto o cercato.
Il seme che muore è il non desiderare di essere consultati, lo stare al proprio posto facendo bene e con amore quel che si deve fare, senza cedere alla narcisistica smania della visibilità o del risultato a tutti i costi.
Il seme che muore è accettare la brutta sensazione di aver sbagliato, di aver fallito, di aver sciupato tutto, di non aver capito nulla, di non saper più cosa fare e cosa dire, di considerarsi inutili e inefficaci e, al contempo, tornare a dire: Dio,mi fido di te, glorifica il tuo nome, mostrati per quello che sei: Padre! E il Padre, colui che dona vita in abbondanza, saprà completare la nostra vita di ciò che ancora non ha: il seme che muore rinasce in modo nuovo e più ricco.

«Vogliamo vedere Gesù!». 

Solo le persone che provano e riprovano, giorno dopo giorno, età dopo età, a donarsi senza pretesa di essere riconosciuti, a sorridere con sincerità a chi le ha trattate con poca riconoscenza, a cercare con sincerità di migliorarsi senza giudicare chi non fa così… queste persone danno il meglio di sé e somigliano al chicco che, caduto in terra, cambia, lascia quello che credeva e pensava per maturare un nuovo compimento di vita, una nuova progressione e portare così un nuovo e abbondante frutto.
Sono le persone che stando dentro alla fragilità della vita non si vergognano di dire, come Gesù, «l’anima mia è turbata…», ci sono delle cose che mi lasciano perplesso, che mi fanno paura, che mi mettono in crisi… La fede non dà garanzia di immunità di fronte alle difficoltà o alle sofferenze, ma è risposta al desiderio di “vedere oltre”, per stare in modo diverso nella vita per trovarne un nuovo significato.

Signore, donaci di essere come Filippo e Andrea,
di portare a te, e non a noi, chi ci chiede di conoscerti.
Donaci di non invecchiare diventando dei conservatori 
di vecchie modalità, ma fa di noi e delle nostre chiese
persone e comunità che cercando la verità
non abbiano paura di rinnovarsi
per portare a compimento il bene
che tu hai messo in ciascuno. 

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