XVI Domenica del Tempo ordinario *Domenica 18 luglio 2021

Marco 6, 30-34

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. 
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.

Durante alcune esperienze estive con i ragazzi, con gli adulti, con i giovani, a termine della giornata, magari attorno al fuoco o seduti attorno a un tavolo, si cerca di far chiaro in sé e di condividere qualcosa di quel che si è vissuto nel giorno. I ragazzi vivono questo momento con leggerezza, mentre gli adulti a volte lo sfuggono. I ragazzi a volte sono più superficiali e frettolosi nel dire, ma comunque sinceri; gli adulti spesso, anche se non sempre, si rifugiano nella stanchezza, nel silenzio, sfuggono gli sguardi... 
È sempre faticoso guardarsi dentro, dare un nome a quel che si vive e che si prova, rispondere a se stessi: perché ho reagito in quel modo? Perché ho provato quella sensazione? Perché ho fatto quella cosa?
Mi viene in mente, a proposito, un episodio vissuto anni fa, durante un corso di formazione. Uno dei relatori ci propose un’attività particolare: narrare al proprio vicino un’esperienza che ci aveva fatto provare sofferenza. Chi ascoltava non doveva reagire in altro modo che chiedendo: perché?. E dopo aver ascoltato la risposta, doveva tornare a chiedere con gentile e ferma decisione: perché?, e così via per una decina di minuti. Le parti poi si invertivano. Nella seconda parte dell’esercizio si era invitati a condividere un’esperienza che aveva procurato serenità e gioia e anche in quel caso si doveva rispondere all’incalzante: perché?. È stato davvero interessante provare la fatica dello scavare in se stessi per fare verità di ciò che si era provato e cercare le parole per descrivere le sensazioni, le cause, le conseguenze del vissuto.
Oggi, pare a me, ci siamo abituati a vivere senza fermarci mai. Questo modo di fare,pian piano, con l’andar degli anni porta a un senso di stanchezza interiore, di mancanza di non si sa che cosa, di sfiducia nella vita e paura del futuro. 

Guardiamo al Vangelo: i discepoli tornano dall’esperienza fatta e si riuniscono attorno a Gesù, che ascolta quello che dicono. Gli esegeti sottolineano che i Dodici, pur agendo con generosità ed entusiasmo, non hanno fatto e detto proprio tutto quello che Gesù aveva loro indicato. Tuttavia, sembra che la loro predicazione e il loro fare abbia avuto successo. Marco scrive che «erano infatti molti quelli che andavano e venivano non avevano neanche il tempo di mangiare». Insomma, forse senza accorgersene, si erano messi a fare da maestri al posto di Gesù.  
È una modalità nella quale spesso si scivola senza accorgersene, quella cioè di farci depositari della verità, di comportarci come padroni della vita, propria e altrui, di servire impadronendosi del servizio, di programmare – anche nella Chiesa – quel che si può fare facendo del proprio sentire la misura della verità. Per essere più concreto, penso anche a come si possa voler bene a qualcuno senza aiutarlo a diventare se stesso, a come ci si possa rendere disponibili in modo pieno e generoso al punto da impedire ad altri di servire, a come si possa programmare la vita delle persone senza aiutarle a diventare responsabili di sé.
Questo modo di fare è presente nelle famiglie, nelle amicizie, nei rapporti di lavoro, nei gruppi di servizio e anche nella chiesa: più che portare a Gesù (alla Verità, alla Vita) si porta a se stessi. Più che interrogarci su cosa il Vangelo dica oggi a questa vita, si sceglie quello che del vangelo piace di più o che dia autorità e valore al proprio modo di pensare. 
Una vita, il modo di essere amici, sposi, genitori, preti, guide che in qualche misura non si lasci ispirare con onestà da quel che Gesù ha fatto e detto, alla fine si stanca e stanca. 
E ai Dodici, stanchi, Gesù dice: «Fermiamoci un momento, venite in disparte, in un luogo solitario, voi soli». Per due volte l’evangelista sottolinea le parole di Gesù: luogo deserto, disparte, da soli... e dice anche «riposatevi un poco». 

Ecco lo scopo del fermarsi: dare riposo alla vita. E perché una vita trovi riposo non è necessario dormire fino a tardi, ma riuscire a capire come dare direzione ai passi del quotidiano. La fatica fa parte del vivere, ma perché non diventi frustrazione bisogna richiamare sempre a se stessi la motivazione che ci spinge a fare e a essere e rispondendo alla domanda di cui scrivevo sopra: perché?
È importante cercare questo riposo, anche come Chiesa. Fermarci e domandarci con serietà di riflessione perché le nostre parrocchie faticano, perché i preti faticano, perché le nostre parole non parlano più al cuore delle persone, perché il nostro fare spesso sembra non portare nessuna efficacia… hanno niente da suggerirci e da dirci le cose che si vivono? E la Parola, che cosa ci dice?  
Questi momenti vanno cercati e scelti. Credo che noi adulti possiamo aiutarci nel darci questo esempio, per offrirlo poi anche ai giovani. È utile cercarsi un “luogo solitario” (il testo evangelico parla di eremo), ma non è obbligatorio cercarlo lontano. Questo luogo può essere anche solo un tempo da scegliere e custodire quotidianamente per fermarsi e chiedersi se quello che si sta facendo porta vita o se in qualche modo fa della propria vita, del proprio sentire, del proprio pensare la misura per la vita degli altri.

I Dodici ascoltano Gesù, cercano un luogo adatto, ma le cose vanno diversamente: la gente accorre e li precede. E Gesù, come reagisce difronte a questo imprevisto? Agisce per compassione. Trovo significativo che questa volta Gesù esprima la compassione non organizzando cose o facendo miracoli, ma insegnando: il miracolo verrà più tardi, verso sera. 
La stanchezza, come ho già accennato, è forse direttamente proporzionale al non saper cosa fare, come fare e perché fare, al non saper a chi riferirsi, a non aver chiara la meta e la motivazione. Gesù guarisce la stanchezza «insegnando loro molte cose». 
Mi domando a quali insegnanti faccio riferimento per far sì che la mia vita non si consumi di stanchezza ma riesca a trovare compimento. E mi domando anche cosa insegnino le nostre vite, le nostre comunità di fede, le nostre iniziative di pastorale.

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