XXIII Domenica del Tempo ordinario *Domenica 5 settembre 2021

Marco 7, 31-37

In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli. 
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Apriti a te stesso, alla vita, a ciò che viene...

Avrò avuto circa sette anni e stavo giocando da un amico, quando suo padre si avvicinò e mi fece una domanda. Il signore in questione aveva una caratteristica della voce che rendeva il suo parlare a me incomprensibile, non riuscivo mai a capire cosa dicesse. Quel giorno non riuscii a intuire che cosa mi stesse chiedendo: lo guardai, ma non avendo capito la domanda, non risposi nulla. Mi rivolse nuovamente la domanda e io, nell’imbarazzo del non saper cosa rispondere, pensavo tra me: «Se dico “sì” magari era da dire no, se dico “no”, forse era da dire sì». E così, nell’incertezza, pensai di cavarmela con un vago «non lo so». Intervenne prontamente la madre del mio amico che, ascoltando la mia risposta, mi disse: «Ma hai capito quello che ti ha chiesto?», e io risposi «No». «Ti ha chiesto quanti anni hai…» e così, avendo finalmente capito la domanda riuscii a rispondere con esattezza. L’episodio suscitò qualche risatina.

Comunicare: un bisogno così vitale, indispensabile e delicato da aver sempre bisogno di continue attenzioni e cure. Ci viene insegnato a parlare, ma a saper comunicare non tutti poi imparano.  

Spesso la difficoltà nel farlo somiglia a quella dell’episodio descritto sopra: non capiamo, facciamo finta di aver capito, non ci interessa capire, rispondiamo parole che non servono o che non dicono la verità. E così, il tentativo di comunicare, invece di produrre accoglienza, invece di far sì che ci si senta capiti, invece di aiutare a far chiaro in sé, invece di infondere coraggio e aiuto fa sentire poco o per niente stimati, non considerati, ignorati… 
Queste sensazioni fanno vivere la comunicazione in modo sempre più “balbettante”, povero, incompleto, parziale, a volte addirittura inutile.
È vero che con l’età si scivola in una naturale sordità, ma non è la sordità organica quella a cui mi riferisco, perché si inizia a diventare sordi fin da quando si è giovani. E questa sordità interiore ha sintomi ben precisi: una superficialità nell’ascolto e una continua distrazione, la disattenzione rispetto alle cose che sono presenti nella nostra vita e a quelle che non lo sono o che sono nascoste, la poca attenzione ai  silenzi e a quanto viene proferito con un diverso tono di voce, il non considerare prezioso un sorriso o uno sguardo, lo svalutare ciò che vien detto, il non lasciarsi interrogare da quel che si ascolta presumendo di avere sempre ragione e la risposta esatta per tutto…  
E come spesso non ci si accorge di star diventando sordi, altrettanto spesso non ci si accorge che questo modo di ascoltare e comunicare pian piano influenza il nostro ascolto della vita, ci rende balbuzienti e inefficaci nel dire le cose. Si ascolta con supponenza o distrazione, con il cuore e i pensieri e gli occhi indaffarati in altre cose, le risposte che si danno sono piene di parole “vuote” o formule mai approfondite, di circostanza e per niente o poco efficaci.  

La guarigione che Gesù opera, in questo caso risponde a una richiesta di un gruppo di persone: non è il sordomuto, fattosi consapevole della sua situazione a chiedere, sono altri a chiedere per lui. Chi sono queste persone? Si può pensare ad alcuni amici – come quelli che portarono il paralitico davanti a Gesù, in casa di Pietro – che desiderano aiutare un loro amico. Questo insegna che, per lo meno alcune volte, quelli che ci amano si accorgono meglio di noi stessi di quello che stiamo vivendo e di ciò di cui abbiamo bisogno.  

Il modo di fare di Gesù, come si può notare, è sovrabbondante nei gesti, quelli che gli esegeti dicono essere in quel tempo ritenuti terapeutici.
A me piace veder descritti da Marco alcuni ingredienti indispensabili per “guarire” la comunicazione: il primo fra tutti è quello di migliorare la capacità di ascoltare.
Guardo a quello che fa Gesù: «Lo prese in disparte, lontano dalla folla»; (che questa modalità sia un invito a operare con delicatezza, a non mettere in imbarazzo nessuno neanche quando si fa del bene?)  
«In disparte, lontano dalla folla»: per guarire la capacità di ascoltare e di comunicare dobbiamo come prima cosa recuperare il silenzio.
Quante ore al giorno è connessa la nostra mente? Quante parole inutili, volgari, superficiali, grossolane, impietose, offensive, violente ascoltiamo ogni giorno dalla televisione? E queste parole che cosa depositano nel cuore e nei pensieri?
E poi ancora, come contaminano i modi di parlare?
Starsene «in disparte, lontano dalla folla» non significa rifiutare il contatto con le persone, ma darsi un tempo per scoprire che la vita e il suo valore, molto spesso, se non sempre, non coincidono con l’opinione della maggioranza, quella che abitiamo più agevolmente.
Starsene un po’ lontano dalla folla, ricavarsi uno spazio di silenzio, aiuta ad ascoltare se stessi con maggior autenticità e a ritrovare un po’ più di verità sia alle domande che portiamo nel cuore che nelle risposte che abitualmente ascoltiamo e diamo.

Ai tempi di Gesù si credeva che la saliva fosse alito, respiro concentrato e che nel toccarla, in qualche modo si entrasse in contatto con la forza vitale della persona. Il gesto poi del toccare, in questo caso sia le orecchie che la lingua, la dice lunga sull’importanza di vivere il contatto fisico per essere guariti. Quante volte un abbraccio sincero e confidenziale guarisce più di una pastiglia, quante volte una carezza esprime oltre le parole quel che si vive, quante volte appoggiare la mano sulla spalla, tener la mano nella sofferenza o nel pianto incoraggia, protegge, esprime disponibilità, accoglienza, confidenza, affetto, stima. Gesù non teme questo aspetto - che anche noi cristiani guardiamo con imbarazzo, se non con sospetto - e lo fa diventare mezzo di guarigione.
A proposito, ricordo una interessante curiosità che gli esperti di comunicazione insegnano. Nonostante si pensi spesso che il linguaggio verbale sia il più importante, in realtà non è così: secondo le ricerche, oltre il 70 per cento (alcuni altri affermano il 50) della comunicazione è non verbale: sguardi, toni di voce, posture…. Cose tutte che esprimono o negano l’attenzione del cuore.

Il sospiro che Gesù emette richiama il momento in cui Adamo, ricevendo in sé il respiro di Dio, inizia a esistere, e anticipa il momento in cui, qualche istante prima della sua morte, «Gesù emise lo spirito». Perché la comunicazione possa essere un atto in cui si riceve e si dona vita, non basta essere attenti al solo modo con cui si comunica, ma anche chiedere a Dio di renderci attenti all’ascolto, perché ogni parola ascoltata e ogni parola detta possono diventare Parola in grado si portare vita o di toglierla.
«Effatà! Apriti completamente!» è una parola che ci viene donata e affidata nel battesimo per indicarci il modo in cui stare nella vita: apriti a te stesso, alla vita, a quel che viene, a ciò che ancora non comprendi, al perdono, al tempo in cui vivi, al ricominciare, ai figli, a chi ami, a ciò che i desideri ti indicano.

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