XXX Domenica del Tempo ordinario *Domenica 24 ottobre 2021

Marco 10, 46-52

Mentre Gesù partiva da Gerico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timeo, Bartimeèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Signore, aiutami a guardare in alto

Ci sono delle sere in cui, dopo una riunione o dopo aver concluso quel che c’era da fare, mi fermo qualche minuto in ufficio parrocchiale. Mi appoggio sul bracciolo della sedia e rimango in silenzio. È tardi e dovrei andare a letto, e invece rimango lì a rivisitare alcune delle cose vissute che, continuando a rimbalzare dentro alla mente o nel cuore, tentano di dirmi qualcosa che io non capisco, o che forse non voglio capire. Rimango lì a cercare il silenzio che, come preghiera, riposi le parole, le domande, i pensieri, gli occhi…  Mi viene in mente qualche persona che è da tanto che non vedo, un fatto vissuto, una parola ascoltata o detta, un messaggio a cui non ho risposto, il buono che mi ha portato un incontro, un imprevisto che mi ha inseguito fino a farmi cambiare strada, qualcosa che ho sbagliato… E non sempre in questo silenzio riesco a comporre il senso della giornata e a incontrare la soddisfazione di aver vissuto bene. A volte rimane irrequietezza, insoddisfazione, stanchezza e quel senso di inconcludenza che viene dal non aver risolto quel che si poteva risolvere. Ogni tanto mi dico che alla mia età dovrei aver imparato già da tempo quel che si deve essere e fare per vivere con soddisfazione la vita. Sì, un po’ l’ho imparato, ma in alcuni giorni mi sento come Bartimeo, il cieco del Vangelo: non vedo bene, né lontano, né vicino, né fuori, né dentro di me. Credo sia uno dei mali del nostro tempo, o per lo meno un male che prende gli adulti. Quando si è giovani si ha l’ingenua pretesa di vederci chiaro su tutto e di capire tutto, poi il passare degli anni rende più consapevoli e si scopre che non sempre si vede bene dentro alle cose, non si comprende quel che accade, quel che passa per la strada della vita si fa estraneo e sconosciuto.

Se ci si rassegna a questo vederci poco, se non ci si dà un aiuto si perde la direzione, e chi perde la direzione cammina sì, e anche con molto impegno, ma non giunge da nessuna parte. Ripete gli stessi passi, lo stesso percorso, le stesse proposte, le stesse iniziative, le stesse modalità, ripete le stesse parole, non cambia mai idea e si avvolge nel mantello delle abitudini quasi a cercare identità, conforto, ragione e forza (che poi non si trovano) e a fine giornata si lamenta per il mancato risultato, per il traguardo non raggiunto, per la fatica che si prova. Se non si prende consapevolezza che in questo modo di essere si scivola dentro, se non si fa nulla per cambiare, la fatica che si prova pian piano si tramuterà in frustrazione, in rinuncia all’impegno e come Bartimeo, il cieco di Gerico, farà sì che ci si sieda ai bordi della strada, della quotidianità, del luogo in cui si vive stando lì senza sentirsene coinvolti, protagonisti e responsabili.

Ciò che guarisce la vita di Bartimeo è lasciarsi interrogare da quello che è nuovo, da ciò che non conosce e che può presentarsi anche come disturbo dell’abitudine acquisita e quotidiana, proprio quella che fa rimanere seduti ai bordi della strada, a mendicare aiuto, attenzione, affetto, stima, riconoscenza.

Bartimeo sente confusione, ma non sa che accade, si incuriosisce, domanda… Un avvenimento, un imprevisto, una richiesta, una proposta, un modo diverso di considerare, una risposta diversa da quella che ci si aspettava, un cambiamento… tutto può essere segno di Gesù che passa. Un segno di Gesù, la cui presenza porta forza e rivela un nuovo modo di stare nella vita.

È interessante notare l’atteggiamento di alcuni che quel giorno erano presenti a Gerico: davanti a una persona che manifesta il desiderio di trovare un modo nuovo di guardare la vita, di riprendere il proprio cammino, di tramutare la fatica in un nuovo inizio, davanti a queste attese, la reazione è: «Sta’ zitto!».

Questa risposta è spesso ancora presente negli educatori, negli insegnanti, nei preti, nei genitori nei credenti, in chi è guida soprattutto quando, al posto di prendersi cura delle domande e cercare risposte che rimettano in piedi, si preferiscono le solite risposte, quelle che non suscitano nessuna attrattiva e non rafforzano il desiderio di cambiamento.

Gesù ascolta il desiderio delle persone, si ferma ad aspettare che ogni «irrequietezza, insoddisfazione, stanchezza e ogni senso di inconcludenza» maturino in domanda, in bisogno di andare a chiedere aiuto.

E Gesù pone a Bartimeo la domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». 

È come se gli chiedesse: «Dimmi… di che cosa hai bisogno? Cosa manca alla tua vita?». La risposta a questa domanda non si può copiare da nessuna parte: ciascuno ha da trovarla nella verità di quel che prova e cerca.

Che bello il modo di fare di Gesù. Che bello quando una persona si accorge del bisogno di un’altra persona e gli manifesta amicizia e aiuto invitandolo a cercare soluzioni, risposte, modi che non lo avvolgano più nel mantello della rassegnazione, che non lo tengano più seduto a mendicare, ma che gli diano nuova forza per tornare a stare in piedi. 

«Che cosa vuoi che io faccia per te? Rabbunì, che io veda di nuovo!».

Ho letto da qualche parte che alcuni esegeti esperti traducono la risposta di Bartimeo con queste parole: «Che io guardi in alto!». Trovo questa proposta di traduzione molto significativa. Spesso le fatiche si fanno tanto pesanti, le proposte rimangono ripetizioni, le parole si accumulano senza dire nulla perché non guardiamo più in alto, perché non andiamo vicino a Colui che fa ritrovare la strada e che aiuta a percorrerla.  

La fede è anche questo: ascoltare ciò che è nuovo, ascoltare la voce di quel che manca, insistere nella ricerca, lasciare ogni mantello, ogni soluzione, ogni rifugio che non rinnovi la voglia di vivere e chiedere sempre di saper, anche in questo tempo, tornare a guardare in alto, oltre, a quello che sembra lontano ma che si può provare a raggiungere con la forza del proprio passo.

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