Paolo Rumiz, il nuovo libro "La rotta per Lepanto" esce l'8 maggio

Giusto vent’anni dopo il “diario di bordo” in barca a vela, Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, ritorna a ritrarre le andature verso Oriente, oltre gli stereotipi, in cerca di storie. La rotta per Lepanto (Bottega Errante Edizioni, pagine 145, euro 16) in uscita l’8 maggio naviga nel Mediterraneo con il pretesto della battaglia nel golfo di Corinto il 7 ottobre 1571.

Paolo Rumiz, il nuovo libro "La rotta per Lepanto" esce l'8 maggio

«Lepanto, la Trafalgar del Mar d’Oriente; trentamila morti, nubi di frecce che oscurano il sole, il mare rosso di sangue. Lepanto, la voglia di tornarci dopo la guerra in Iraq. Per capire com’erano, allora, gli scontri di civiltà» annota Paolo Rumiz mentre salpa dall’Arsenale di Venezia.

Dalmazia, Ragusa, Montenegro, Cattaro, Albania, Corfù. Ogni approdo rivela un’Europa più sintonica che ostile. «Voglio fare un viaggio dove finalmente racconto che cosa è stato lo scontro di civiltà, tra cristiani e musulmani. Nella battaglia di Lepanto sono morti all’incirca 40 mila uomini in poche ore di combattimento, ma dopo si sono ristabiliti rapidissimamente gli equilibri. Non solo, Venezia ha continuato a tenere rapporti con l’Oriente, gli stessi turchi con cui era in guerra, perché faceva l’Europa senza chiamarsi Europa, faceva quello che oggi non si fa».

Così Rumiz a bordo scruta terre, popoli, memorie. Descrive sempre i luoghi senza mai dimenticare le persone, con aneddoti e soprattutto il mare Adriatico che fa da bussola alla grande storia e alle piccole vite. Con tanto di cabala, quando il 1492 spagnolo con la cacciata degli ebrei incrocia il 1942 nazista a Wannsee: «Al tempo di Lepanto, molti di costoro − gente mediterranea, sefardita − ha trovato rifugio e fortuna a Venezia, Corfù, Salonicco, Ragusa, Istanbul, Sarajevo. Il Turco è più tollerante del re cattolico».

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La rotta per Lepanto fa tappa in Bosnia con riflessioni amare: «Nessuno mise bombe quando ottomila musulmani inermi furono ammazzati in due giorni a Srebrenica. Non ci furono perché il fondamentalismo, invocato a pretesto della guerra, non esisteva. Ma l’estremismo venne, perché fu evocato precisamente allora. Vennero i mujahiddin dal mondo arabo. Avevano trovato una causa per cui combattere. Milošević generò il nemico che non c’era. E oggi che c’è, oggi che Mostar ha il doppio dei minareti di prima, il mondo intero ha paura e si muove come lui».

Alla fine del viaggio, che combaciava con l’ennesimo reportage raffinato, Venezia si rispecchia in Istanbul: «La Serenissima conosceva l’avversario, lo capiva. Dopo Lepanto scrisse fenomenali barzellette e canzoni satiriche sui pianti del sultano davanti alla sua armata che xe andò in beccaria. Non era solo esorcismo, era la riumanizzazione del nemico col quale bisognava pur trattare. Venezia maledisse Maometto bùsaro, inquo e can, ma non fu mai arrogante e produsse montagne di libri su usi e costumi del Turco. «Se ’ndè dal sultan dei turchi – dicono ancora oggi le mamme ai bambini –parlèghe in venezian. El ve ga da capir…».

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