Idee
«Al ritmo con cui l’esercito israeliano uccide i giornalisti a Gaza, presto non ci sarà più nessuno a tenervi informati». Con questo slogan, Reporter senza frontiere, lo scorso 31 agosto ha lanciato una campagna, a cui stanno aderendo diversi media internazionali, per chiedere la protezione dei giornalisti palestinesi a Gaza, la fine dell’impunità per i crimini contro gli stessi e, non da ultimo, che alla stampa straniera venga concesso un accesso indipendente al territorio.
Secondo i dati dell’organizzazione, infatti, oltre 220 giornalisti sono stati uccisi dall’esercito israeliano a Gaza in quasi due anni e tra loro oltre 50 sono stati deliberatamente presi di mira per la loro professione. L’ultimo sanguinoso bollettino risale al 25 agosto, quando un bombardamento ha colpito il centro medico Al Nasser a Khan Younis uccidendo cinque reporter che collaboravano anche con Reuters e Associated press. L’immagine, perché poi alla fine rimane solo quella, è la macchina fotografica insanguinata di Mariam Dagga, morta a 33 anni perché credeva nella libertà dell’informazione: «Questa immagine mi smuove una grande commozione – ammette Lucia Capuzzi, inviata per Avvenire – e un grande senso di fierezza per quanti vivono questa professione fino in fondo, ridando dignità alla stessa, che non è solo raccontare veloce quello che accade, ma entrare nelle storie fino in fondo, specie quando quella storia è tanto cruenta, drammatica. Questi giornalisti uccisi seguivano regolarmente gli effetti dei bombardamenti dei civili, andando negli ospedali, raccontando la vita di quelle persone che il conflitto lo patiscono sulla propria carne. Perché la guerra è questo, è la disumanizzazione dell’altro, e il primo passo per scardinare la logica bellica è restituire l’umanità raccontando».
Da quando esiste un lavoro di documentazione, il conflitto in corso nella Striscia è a oggi il più mortale per i professionisti dei media nella storia moderna, superando anche la seconda guerra mondiale: «La prima vittima della guerra è la verità – sostiene Andrea Buoso, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto – Questo perché in un conflitto uno degli elementi più preponderanti oltre all’aumento delle vittime civili, che diventano quasi il bersaglio principale degli eserciti, è la propaganda, è il tentativo di portare l’opinione pubblica a sostenere le ragioni dell’una o dell’altra parte, e a non accettare che possano esserci dei testimoni terzi dei massacri che si creano».
È questa una scelta inedita: il Governo israeliano ha estromesso la stampa internazionale, ha deciso di non dare accesso al teatro di guerra: «Nemmeno gli Stati Uniti ai tempi dell’Iraq e dell’Afghanistan sono arrivati a tanto – rimarca Capuzzi – C’erano i giornalisti embedded, ma comunque una presenza terza. E tutto questo sta avvenendo nel silenzio dei governi della comunità internazionale: le sorti di questo conflitto sarebbero state diverse se ci fossero state decine di testate estere, sarebbe stato molto più difficile screditarle, no che i giornalisti palestinesi non stiano facendo un grande lavoro, ma in quest’epoca di disinformazione tutto finisce nel calderone dell’informazione additata come partigiana».
Ne è convinto anche Buoso, il quale non dimentica i numerosi conflitti e guerriglie in Asia, Africa e Sudamerica sui quali i riflettori non sono adeguatamente accesi e lontani dall’opinione collettiva, e che prende l’invasione russa in Ucraina come esempio: «L’Ucraina ha deciso di rendere trasparente l’attacco della Russia e le conseguenze su civili e strutture, con l’ingresso delle testate straniere in sintonia con i princìpi della ricerca della verità – anche se vuole ovviamente avere le proprie ragioni – che sono alla base della nostra civiltà europea e occidentale. E se in qualcuno l’aggressione aveva generato la convinzione che davanti alla violenza degli attacchi tutto fosse perduto, il racconto che ancora oggi ci porta in Ucraina e nelle storie di chi resta, scappa o resiste è invece per me la dimostrazione dell’importanza di questa professione. Ma non basta: se è vero che i giornalisti come i soccorritori sono coloro che vanno in direzione contraria alle vittime che fuggono, allora dobbiamo essere sempre più coscienti di non parteggiare, o al più solo per i più deboli e per le vittime, e dovremmo essere sempre più pronti e preparati nel nostro lavoro di informatori».
Viviamo in un’epoca paradossale: gli stessi giornalisti palestinesi costantemente stanno raccontando la guerra tramite i loro social, Instagram su tutti, abbattendo in qualche maniera filtri, censure, ostacoli, eppure sembra non attecchire nella coscienza di persone e politici. Insomma, raccontare non è più sufficiente? «A lungo abbiamo creduto che raccontare l’orrore contribuisse a far prendere consapevolezza alle persone perché quell’orrore non si ripetesse più – riflette Lucia Capuzzi – Era la grande convinzione durante i conflitti della seconda metà del Novecento, pensiamo a quanto le foto del Vietnam abbiano contribuito a far crescere una coscienza civile in America. Purtroppo queste convinzioni si sono scontrate con l’irruzione dei social: abbiamo consentito una delegittimazione totale della professione con la nostra complicità, appoggiandoci a strumenti che si prestano a poteri forti che hanno interesse a promuovere la disinformazione. Ecco perché è difficile fare presa pur essendo testimoni di verità. Lo sforzo per la nostra categoria è dare chiavi di lettura, un surplus che va oltre al fatto a cui bene o male possono accedere tutti, su un realtà sempre più complessa, molto difficoltosa da decifrare per chi lavora nell’informazione, figuriamoci per chi fa altro nella vita».
Se il giornalismo vorrà essere ancora essenziale e superare “la prova” della credibilità, deve tornare a un principio cardine della deontologia: «Cito il collega Pino Scaccia – conclude Andrea Buoso – Il giornalista dev’essere colui che dà le notizie, anche quelle che gli danno fastidio o che smentiscono i suoi
pregiudizi».
L’ambasciatore dell’Algeria, Amar Bendjama, con voce rotta, ha letto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una lettera che Mariam Dagga aveva scritto pochi giorni prima di essere uccisa, al figlio Ghaith: «Sei il cuore e l’anima di tua madre. Quando morirò, voglio che tu preghi per me, non che tu pianga per me… Ho fatto di tutto per renderti felice e al sicuro, e quando crescerai, quando ti sposerai e quando avrai una figlia, chiamala Mariam come me».