Annunciare Cristo e celebrare la comunione

In attesa dell'ingresso del vescovo Claudio (domenica 18 alle 16 in cattedrale a Padova), tracciamo un breve profilo della figura del pastore diocesano: qual è la sua funzione, quale il suo ruolo e infine, quali i suoi poteri? Dalle rispose del cancelliere di curia don Tiziano Vanzetto emerge come dalla lezione del Concilio emergono due aspetti di fondo a cui il vescovo è chiamato, l’annuncio della Parola e la cura dell’eucarestia, e uno stile di governo pastorale basato sulla comunione fraterna col presbiterio.Iscriviti gratuitamente al sito per leggere l'articolo. Approfondisci visitando il nostro speciale in vista dell'ingresso del nuovo vescovo.

Redazione

Nelle prime due tappe del percorso di avvicinamento all’ingresso in diocesi del vescovo Claudio, abbiamo provato a delineare la figura del vescovo, alla luce della Scrittura e del Concilio, e abbiamo descritto il senso profondo del rito di ordinazione.

Questa settimana la terza tappa, per approfondire ruolo e compito del vescovo in diocesi. Lo facciamo provando a partire non domandandoci “cosa deve fare il vescovo”, ma “cos’è la diocesi” che gli viene affidata. Nel codice di diritto canonico, riprendendo il Concilio e in particolare la Lumen gentium, la diocesi è descritta come «la porzione del popolo di Dio che viene affidata alla cura pastorale del vescovo, con la cooperazione del presbiterio in modo che, aderendo al suo pastore e da lui riunita nello Spirito santo mediante il vangelo e l’eucarestia, costituisca una chiesa particolare in cui è veramente presente e operante la chiesa di Cristo, una santa cattolica e apostolica».

Una definizione densa di significati e rimandi, che aiuta a delineare di riflesso il compito del vescovo diocesano. Don Tiziano Vanzetto, docente di diritto canonico alla Facoltà teologica del Triveneto, è cancelliere della curia vescovile e vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico diocesano. «Il vescovo nella sua attività ordinaria è chiamato a una molteplicità di compiti. Se però vogliamo andare all’essenziale, il codice spiega chiaramente il fine ultimo del suo servizio indicando due aspetti cruciali, a servizio del cammino che ogni diocesi è chiamata a compiere per rendere veramente presente e operante la chiesa di Cristo. Da un lato c’è l’annuncio del vangelo, la comunicazione della verità di fede che chiama anche al dialogo con le domande degli uomini del nostro tempo, credendo che il vangelo favorisca la dignità delle persone, la concordia, la pace, il vero culto a Dio, la ricerca del senso della vita. Questo è il primo compito, che si declina nell’organizzare la catechesi e le varie forme di pastorale, con una particolare attenzione all’educazione e alla formazione in tutti i campi. Dall’altro lato c’è l’eucarestia, che è la somma, l’essenza del mistero pasquale e dell’immagine di chiesa. Pensiamo al giovedì santo, al vescovo con i presbiteri e il popolo di Dio che convocati dal vangelo stanno attorno all’eucarestia. Nei grandi eventi come nella vita quotidiana delle piccole comunità, nell’eucarestia e in tutti gli altri sacramenti, il vescovo nella sua missione di sommo sacerdote della diocesi è chiamato a tenerci tutti uniti per vivere e celebrare il mistero della nostra salvezza, che è Cristo che si dona a noi».

Se questi sono i compiti fondamentali – annuncio del vangelo e cura della vita liturgica – c’è uno stile attraverso cui esercitarli? «Il primo punto che il codice mette in evidenza, e su cui è bene soffermarsi, è il richiamo alla cura pastorale che il vescovo è chiamato a esercitare non da solo ma con il suo presbiterio. Il codice non dice “con i presbiteri” ma con “il presbiterio”: tutti i presbiteri sono chiamati a costituire come un corpo unico insieme al vescovo, e solo in questa unione può essere davvero esercitata un’efficace cura pastorale. Vale per il vescovo, e vale anche per i singoli presbiteri che non possono pensarsi a servizio dei vari compiti che svolgono, a partire dalla cura delle comunità parrocchiali, se non uniti al loro vescovo e a tutti gli altri confratelli presbiteri».

Questo vuol dire che la diocesi è governata in maniera collegiale dal vescovo e dai presbiteri? «Questo vuol dire che lo stile di governo deve essere improntato alla piena collaborazione. Nella chiesa non c’è democrazia, non ci sono maggioranze e minoranze chiamate a votare, ma le decisioni non sono mai prese in solitudine bensì attraverso il confronto, la riflessione condivisa, il “consigliare”. Non a caso il codice di diritto canonico chiede al vescovo di sentire il proprio consiglio presbiterale – che è l’organismo specifico che rappresenta tutto il presbiterio – nelle questioni di maggiore importanza. Al di là delle forme giuridiche, rimane l’aspetto di fondo: una vera collaborazione è possibile solo se tra vescovo e presbiterio, tra vescovo e singoli presbiteri si crea un rapporto di comunione e di reciproca stima, di ascolto, di condivisione. Ecco perché uno dei primi compiti del vescovo è quello di avere cura dei sacerdoti, conoscerli, seguirli, accompagnare la loro vita spirituale e incoraggiarli a svolgere il loro compito. Se il primo comando che dà il Signore ai suoi apostoli è avere amore gli uni per gli altri, il primo ambito in cui si deve manifestare in tutta la sua pienezza è proprio nel rapporto del vescovo col suo presbiterio. Così la comunione diventa anche amicizia, rapporto veramente filiale e nello stesso tempo fraterno».

Il vescovo però in ultima analisi è chiamato a esercitare delle scelte sulle persone. Pensiamo ai trasferimenti dei parroci, spesso accompagnati da resistenze, dubbi, perfino proteste. E l’obbedienza, che i presbiteri promettono al vescovo al momento dell’ordinazione? «Diciamo subito che il vescovo è libero di nominare ai vari incarichi la persona che ritiene più adatta. Ma, anche qui, vi sono alcuni passaggi obbligati. Il codice, ad esempio, prevede che nel nominare un nuovo parroco senta il vicario foraneo e magari altri sacerdoti per capire di chi ha bisogno una determinata realtà e quale potrebbe essere la persona più adatta. Guardiamo alle parole del codice: quando si parla di “aderenza” al pastore – e questo vale tanto per i presbiteri quanto per l’intero popolo di Dio – si dice qualcosa di ben più grande e impegnativo dell’obbedienza. Non è l’accettazione passiva, magari accompagnata da un continuo brontolare, è un discernimento che deve aiutarci, vescovo e presbiteri, a far sì che il popolo di Dio possa camminare per le strade che il Signore indica mediante lo Spirito santo».

Nell’annuncio del vangelo come nella liturgia, nel governo della diocesi come nel rapporto con i presbiteri, non c’è anche un compito di vigilanza a cui è chiamato il vescovo? «Certamente, e su molti versanti. Pensiamo al grande capitolo dei carismi che il vescovo è chiamato a discernere, riconoscendo i tanti percorsi che lo Spirito santo suscita nel popolo di Dio e al tempo stesso richiamando o non accettando ciò che solo all’apparenza è conforme al vangelo. O pensiamo alla vigilanza perché in ogni comunità si celebri la liturgia della chiesa in maniera corretta e uniforme. Ma è un dovere, quello del vigilare, che viene sempre assieme a quello del “fare” in prima persona, del rimanere costantemente con lo sguardo rivolto a Dio e al vangelo».

Questo vuol dire che al vescovo noi guardiamo come a un modello di vita cristiana? L’autorevolezza della testimonianza, prima dell’autorità del ruolo? «San Tommaso si chiedeva se il vescovo dovesse essere il più santo di tutti, e rispondeva che non necessariamente doveva essere così. Lo Spirito santo suscita continuamente carismi e doni, e ci sono fedeli che possono essere anche più santi del vescovo stesso. D’altronde tutti siamo chiamati alla santità, ciascuno nel suo stato di vita e nel suo grado gerarchico. Al vescovo è chiesta una cosa ben precisa, ovvero di saper guidare il popolo di Dio. Ma è chiaro che, per poterlo fare, deve anche sentirsi impegnato – persino più di tutti i suoi fedeli – a una vita di santità. Qui, però, i codici arrivano fino a un certo punto e poi esauriscono la loro funzione. Non è possibile “codificare” o “certificare” la santità. Ma sono certo, invece, che la nostra gente davanti a un sacerdote percepisca subito se è un uomo di Dio. E per quanti difetti e limiti abbia, è da questa intima certezza che scaturisce la voglia di seguirlo».

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