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Le sintesi di Leone XIV: un ponte tra sfide e spiragli di pace
Nel frangente attuale le sfide che impegneranno i ponti di Leone XIV sono gravi e molteplici
IdeeNel frangente attuale le sfide che impegneranno i ponti di Leone XIV sono gravi e molteplici
Pontefice, costruttore di ponti: così Leone XIV si è da subito ed espressamente proposto al mondo. Anche il profilo personale depone all’insegna delle sintesi. La formazione agostiniana si congiunge con la componente tomista, suggerita dal dottorato all’Angelicum e dal nome prescelto, se rinvia al papa iniziatore della Dottrina sociale. Esattamente i due principali filoni teologici e filosofici del cattolicesimo. Anche altro suggerisce uno sguardo universale. I pregressi missionari si compendiano con il governo del suo ordine e l’attività curiale degli ultimi anni. Le origini familiari, il doppio passaporto (statunitense e peruviano), l’esperienza latino-americana rinviano a una cerniera tra Nord e Sud globale.
Sintesi chiede unità, perspicua nel motto agostiniano nello stemma scudato: “In Illo uno unum”, per un popolo cristiano cui non si confanno particolarismi esclusivisti e primati autoreferenziali. Unità che discende dal saluto “la pace sia con voi” consegnato dal Risorto agli apostoli: prerogativa allocutoria dei vescovi, esso rimarca l’identità di una Chiesa che si professa – non solo a parole – una e apostolica, internamente legata in solidarietà alle guide episcopali. Viatico intrinseco all’unità è la pace stessa, che inevitabilmente riguarda l’intera famiglia umana. Pace qualificata senza sofismi come “disarmata e disarmante”, mentre nel profitto delle armi oggi si cercano opportunità di rilancio gravando su sperequazioni afflittive. I due aggettivi, insieme, rimandano a una pace nient’affatto rinunciataria, bensì costruita con l’intelligenza di strategie previdenti, escludendo esasperazioni strumentali.
Nel frangente attuale le sfide che impegneranno i ponti di Leone XIV sono gravi e molteplici. Il 6 maggio si è riaperta la violenza dell’antica conflittualità tra India e Pakistan, con la reazione missilistica di Nuova Delhi – suscettiva della controrisposta di Islamabad – alla strage terroristica del 22 aprile a Pahalgam, imputata a un gruppo che si vuole ricondotto al governo pakistano. I due Paesi si fronteggiano dal 1947, anno dell’indipendenza dal dominio britannico. I neo Stati si divisero i territori secondo il criterio confessionale, lasciando irrisolta la spartizione del Kashmir. Fu subito guerra, dopo un anno interrotta con una soluzione mediata dall’Onu, che divise la regione in due aree di rispettivo controllo. La guerra riesplose nel 1965, a seguito dell’incursione di forze pakistane nel settore indiano. Poi ancora nel 1971, con il sostegno dell’India all’indipendenza del Bangladesh. E di nuovo nel 1999. Ma le schermaglie confinarie sono state molte di più, intervallate da attentati islamisti e violenze indù. L’asimmetria militare, territoriale e demografica premia evidentemente l’India, eppure la dotazione atomica dei due Paesi non depone a favore della tranquillità, specie se il nuovo focolaio non si risolvesse in uno scambio di rappresaglie.
Il subcontinente, dai tempi della Guerra fredda, è al centro di interessi incrociati. La Cina, nonostante il sodalizio Brics, trova nell’India una solida concorrente. A parte le rivendicazioni sul confine, la rivalità investe i campi della tecnologia, del commercio e delle rotte strategiche. Il Pakistan ha goduto a fasi alterne del sostegno finanziario e militare Usa: prima in chiave antisovietica, poi in funzione dell’Afghanistan, assurgendo con Bush jr allo status di “major non-Nato ally”, ribadito da Obama. Ma negli ultimi anni la Casa Bianca lusinga l’India per la logica anticinese. Nondimeno, nessuna potenza ha interesse a scatenare l’imponderabile, motivo per cui Washington e Pechino hanno mediato per la tregua sancita sabato scorso – per quanto l’India già ne abbia denunciato la violazione.
Uno spiraglio che dà respiro alla speranza si è appena affacciato anche in Medioriente: già solo i rumors sui contatti tra Casa Bianca e Hamas e l’ipotesi del riconoscimento della statualità palestinese senza quest’ultima sono significativi. Il governo israeliano, riprendendo una mattanza che usa anche la carestia come mezzo di guerra, ha apertamente rivelato l’intenzione di prendere Gaza implicando esodo e deportazione. Tel Aviv procede per inerzia, senza bussola, esponendosi, oltre che alle fibrillazioni interne e all’autoconsunzione, anche all’isolamento. Cresce l’insofferenza per la sua disfunzionalità alla normalizzazione regionale voluta dalle monarchie arabe ma soprattutto dagli Usa, che hanno fame degli investimenti delle petrolmonarchie d’altronde corteggiate da Pechino. Gli ostacoli frapposti da Tel Aviv ai negoziati tra Iran e Usa hanno indotto Trump ha revocare una partita d’armi aeree e a espungere il riconoscimento dello Stato d’Israele dalle trattative contrattuali con i sauditi.
Intanto gli occhi puntano su Istanbul. Alla richiesta di una tregua incondizionata di 30 gg. provenuta dai cosiddetti “volenterosi” (Starmer, Macron e Tusk), il Cremlino ha rilanciato con una contromossa spiazzante, dando appuntamento in Turchia per il 15 maggio, dove riprendere il negoziato sabotato nel marzo 2022. Con l’avallo di Trump, Zelensky ha accettato, pur vigendo ancora il decreto che vieta trattative. Parleranno i fatti, se opportunismi e strumentalizzazioni lasceranno spazio alla pace come obiettivo reale.
Vedremo se le vicende si allineeranno, per analogia, all’invito di Leone XIV ad “annunciare Cristo e poi sparire”, per non ingombrare la scena con protagonismi utilitaristici e megalomanie carismatiche. Solo la pace liberativa che ne consegue può bastare come garanzia. Anche così si traduce l’invito di Agostino: “Ama e fa ciò che vuoi”.
Giuseppe Casale*
*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense