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martedì 20 Maggio 2025

Viaggio in Terra Santa. Sentirsi accolti da fratelli

Eliana Camporese
Eliana Camporese
collaboratrice

Paolo Petrin è un uomo innamorato di Gesù, lo si coglie ogni volta che si parla con lui. Occhi luminosi, sorriso accogliente, eloquio pacato e profondo, questo imprenditore padovano, 58 anni, residente nella comunità di San Giorgio delle Pertiche, non perde occasione per raccontare la sua gioia di essere cristiano. Allo stesso modo, ama la Terra Santa; sono passati solo pochi mesi dal suo ultimo pellegrinaggio a piedi, l’ottavo in quel luogo, e sta già programmando di tornarci a breve.
Paolo, che cosa ti spinge a tornare a Gerusalemme?

«La Terra Santa è un posto speciale, Gerusalemme, in particolare, città che racchiude in sé le tre religioni monoteistiche. La gente del posto poi ti incanta, è molto ospitale. La prima volta che mi sono recato in pellegrinaggio, alcuni anni fa, ero con un gruppo guidato, ma successivamente sono sempre tornato da solo, con lo zaino in spalla, e ogni volta ho trovato accoglienza».

A gennaio di quest’anno sei tornato con un obiettivo diverso, nuovo…
«Sì, sono partito con due amici della Diocesi di Milano, mi sono unito al loro progetto, ovvero tracciare un percorso a piedi che porta da Gerusalemme fino a Cesarea Marittima: è l’ultimo cammino compiuto da san Paolo apostolo quando venne arrestato dai romani, prima di essere condotto a Roma. Il progetto si proponeva anche di sensibilizzare i pellegrini cristiani a ritornare a frequentare i luoghi santi che, da tre anni, sono privi di turismo religioso a causa della nota situazione in Israele».

Come vi siete mossi dunque, qual è stato il vostro percorso?
«Siamo partiti dallo studio di antichi sentieri romani, creando delle coordinate gps in modo tale da dare l’opportunità di ripetere il cammino a chi lo volesse, ripercorrendo tale tracciato. Quindi, in questo attraversamento della Giudea, abbiamo incontrato luoghi noti del Nuovo Testamento quali, oltre a Gerusalemme e Ain Kerem (luogo dove ha vissuto santa Elisabetta e dove ha incontrato Maria), l’antica Emmaus, Arimatea (città di Giuseppe d’Arimatea, che donò la tomba a Gesù) e Giaffa, luogo molto importante per Pietro, descritto negli Atti degli apostoli. Abbiamo camminato per circa duecento chilometri, una trentina al giorno e anche di più. Nella realizzazione del progetto, che ci ha richiesto la permanenza di una quindicina di giorni, abbiamo chiesto ospitalità anche agli abitanti del posto, trovandola sempre: una piccola comunità cattolica ci ha persino organizzato una festa, con oltre cinquanta persone!»

Tante ore di cammino a contatto con la natura. E poi, il riposo.
«Il pellegrinaggio a piedi ti porta a vedere i pascoli con le pecore, a camminare nel deserto, a vedere tratti impervi dei camminamenti di Gesù, a immedesimarti entrando appieno nel contesto del Vangelo. Mi piace anche frequentare la gente del posto, sentendo riecheggiare l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, camminare nella collinosa Giudea immersi nel creato, sentendo risuonare la Laudato si’. Più volte mi è capitato di suonare il campanello di una casa per chiedere alloggio e sono sempre stato accolto, sia dai cristiani, che da musulmani e ortodossi. Sono stato ospitato nelle parrocchie, ma anche nei villaggi, le persone ti lasciano il loro letto: un papà musulmano con dodici figli mi ha fatto riposare, quando poi doveva alzarsi all’alba per andare al lavoro: asfaltava strade».

Avete fatto tappa anche in diverse comunità religiose.
«Sì, abbiamo fatto sosta e pernottato in monasteri dislocati lungo il tracciato e avuto il piacere di pregare insieme a comunità benedettine, francescane dei custodi di Terra Santa, salesiane e delle sorelle comboniane. Queste ultime, a Gerusalemme, si occupano di evangelizzare alcune popolazioni beduine, rispettandone la cultura: forniscono loro igiene e istruzione per i bambini, e coinvolgono le madri in piccoli lavoretti di cucito. Siamo stati ospitati anche da alcuni imam nella loro moschea, felicissimi di trascorrere un po’ di tempo con noi: il dialogo interreligioso è aperto con gli ebrei e con i musulmani. Quando vivi spalla a spalla con l’altro, impari a conoscerlo, a rispettarlo, ad avere una visione più ampia».

E poi, l’incontro con il patriarca di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa…
«È un uomo molto simpatico; abbiamo chiacchierato con lui e scattato alcune foto. Siamo andati anche a Betlemme, lungo i territori occupati dove non abbiamo trovato alcuna minaccia, non ci sono rischi di alcun genere. Il desiderio di molti che vivono in Terra Santa è che i pellegrini tornino a visitare i luoghi santi, il turismo religioso rappresenta la maggiore risorsa economica per le varie comunità cristiane. Fortunatamente alcuni viaggi sono ripresi, anche dall’Italia».

C’è un’immagine particolare che custodisci nel cuore?
«Sono molte. Una davvero intensa è quella della tomba di Smadar, 13 anni, che nel 1997, mentre passeggiava con le amiche nel centro di Gerusalemme, è rimasta vittima di un attacco suicida palestinese. Ci siamo fermati per una preghiera; il padre, Rami Elhanan, insieme a un altro padre, Bassam Aramin che ugualmente ha visto morire la sua Abir a 10 anni, nel 2007, colpita alla nuca fuori da scuola, da un proiettile di gomma sparato da un soldato israeliano, porta avanti una testimonianza di perdono e di pace tra i popoli. Come cristiano mi sono sentito indegno perché due persone che non sono nemmeno cristiane, uno è ebreo e l’altro musulmano, mettono in pratica i valori più grandi del cristianesimo, cosa per noi più difficile. Per loro sarebbe più semplice l’odio e il rancore, invece il segno distintivo è il perdono».

Cos’altro ti porti a casa?
«Il volto dei cristiani che, pur nella precarietà dovuta a una situazione politica e religiosa non facile, mantengono una grande dignità, l’orgoglio di appartenere all’immensa famiglia della Chiesa cattolica universale. Provo sempre una forte emozione nel partecipare alla messa in questi luoghi, nelle occasioni che mi si offrono. Spesso i canti sono gli stessi che vengono usati nelle nostre liturgie, espressi nella loro lingua. La sensazione è di trovarmi a casa, nella mia parrocchia, non ci sono distanze con i fedeli cristiani palestinesi o israeliani, la fratellanza si sente e anche loro tengono molto alla relazione. Questo mi porto sempre a casa: in questi luoghi in cui sono iniziate le prime evangelizzazioni degli apostoli, si vuole essere ancora oggi forti testimoni di Cristo, chiedendo non tanto, o non soltanto, un aiuto economico, ma soprattutto di essere in sintonia nella preghiera e nella speranza con tutta la Chiesa nel mondo».

In pace

«Il pellegrinaggio a piedi nella terra di Gesù mi procura sempre un senso di pace – sottolinea Paolo Petrin – Adoro percorrere le strade di quei territori, mi piace passare ore in solitaria, in preghiera, la fatica ti aiuta a meditare e a porti le domande essenziali. L’ho imparato anche frequentando i monasteri benedettini, gli eremiti insegnano a fare silenzio, a rallentare il corso frenetico della vita: così, si riesce ad ascoltare l’interiorità, a comunicare con l’eternità».

È ministro straordinario della comunione

Paolo Petrin è sposato e padre di tre figli; ha un lavoro da libero professionista. Frequenta la parrocchia di San Giorgio delle Pertiche ed è ministro straordinario della comunione, servizio che svolge anche presso l’ospedale di Camposampiero.

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