Idee | Lettera.D
La cosa è stata riportata da molti quotidiani e notiziari. Donald Trump ha chiamato «animali» le persone che a Los Angeles la scorsa settimana manifestavano contro l’arresto di 114 immigrati da parte degli agenti dell’Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia deputata al controllo delle frontiere. Nel marzo dell’anno prima lo aveva già fatto. Durante un comizio elettorale in Ohio aveva parlato degli immigranti illegali che attraversano il confine messicano: «Non so se voi li chiamate persone. In alcuni casi non lo sono, sono animali» (cit. da un articolo di Andrea Valle, Liberoquotidiano.it del 17 marzo 2024). Si chiama deumanizzazione dell’avversario politico o semplicemente dell’altro. La psicologia sociale studia questo fenomeno e ne dà una interpretazione:
«Nella storia della nostra specie deumanizzare serve a pensare l’altro essere umano incompleto, animale, oggetto. Serve a compiere su di lui azioni inaccettabili in un contesto normale» (Chiara Volpato, Deumanizzazione, Laterza 2014).
Nella rivista La difesa della razza, pubblicata fra il 1939 e il 1943, i popoli colonizzati dall’Italia e gli ebrei erano associati a termini del mondo animale: «parassiti, avvoltoi, topi, serpi, rapaci», o a malattie: «bacilli, piaga, veleno», oppure ancora del mondo pseudoreligioso: «diavoli, dotati di corna, uccisori di Dio».
Ma perché persone ragionevoli, anche culturalmente non sprovvedute, spesso che si dichiarano di fede, si lasciano inviluppare in ideologie razziste? Toni Morrison, immensa scrittrice afro americana, premio Nobel per la letteratura nel 1993, se lo è chiesto in tutta la sua opera letteraria e offre alcune risposte molto interessanti per noi oggi. Scrive che i partiti e gli Stati possono costruire la propria azione politica sull’odio nei confronti dell’altro se riescono a convincere e a convincersi che l’altro esiste come diverso da noi ed è meno umano di noi, che lo allontaniamo, imprigioniamo, disprezziamo. E lo possono fare sfruttando un bisogno fondamentale dell’uomo, il bisogno di appartenenza a qualcosa di «più grande del proprio sé, e dunque di più forte». Perché il singolo individuo ha paura di perdersi nell’altro se gli somiglia, di indebolirsi (L’origine degli altri, Frassinelli 2019).
È chiaro che il bisogno di appartenenza in sé è buono. Sentire di appartenere alla classe, a una comunità scolastica, ad esempio, nei ragazzi e nelle ragazze fa volare il desiderio. Desiderio di andare a scuola, di riuscire, di aiutarsi. Le classi solidali sono infinitamente migliori sul piano della soddisfazione personale e dei risultati scolastici rispetto alle classi frammentate e competitive. E questo vale anche per la comunità ecclesiale. Conosciamo bene i danni dei campanilismi o dei protagonismi o degli arrivismi o ancora dei clericalismi in campo ecclesiale. Non esiste una «predisposizione fetale» a essere razzisti e sessisti, dice Morrison. Lo si diventa per diseducazione. E chiunque di noi abbia bambini o abbia avuto modo di osservarli in un nido o in una scuola d’infanzia, sa che i piccoli imparano a oggettivare l’altro attraverso gli occhi e il giudizio degli adulti: è uno straniero, è un disabile, è uno diverso da noi. O, nella variante sessista, è una femmina e quindi… I migranti costretti a spostarsi per disastri ambientali nel 2023 sono stati 23 milioni, dieci volte più dei migranti in fuga dalle guerre. Secondo dati della Banca mondiale, entro il 2050 potrebbero essere 220 milioni di persone. Vuol dire che l’unica possibile appartenenza da coltivare è quella che ci vede parte della nostra unica umanità. Sapere tutto questo è importante perché si può diventare razzisti a poco a poco, per un graduale scivolamento del pensiero.
Ad esempio, se non sentiamo più la disumanizzazione sottile contenuta in espressioni apparentemente innocue, come quando si legge (e ripete) che i parchi «pullulano» di senzatetto o le stazioni sono «infestate» di stranieri. Sì può muoversi controvento, e costruire ostinatamente un’appartenenza che ci permetta di tenere stretta la nostra umanità e il linguaggio è una risorsa gentile e potentissima. Ci sono espressioni che ci hanno accompagnato come una promessa negli anni in cui ci si sentiva collettivamente impegnati per un mondo più giusto, ad esempio «I have a dream», il sogno di Martin Luther King, che tutti conoscono e che la morte del pastore e politico non ha cancellato. Papa Francesco è stato maestro di quest’arte di farci aprire gli occhi e il cuore con le parole: «la terza guerra mondiale a pezzi», e quanto aveva ragione; «la Chiesa ospedale da campo», potente visione anticlericale del servizio; e soprattutto quel «chi sono io per giudicare?», così evangelico e così definitivo e così liberante. Se non giudichiamo tutto è possibile, anche sentirsi fratelli.