Idee | Pensiero Libero
«Premio per chi resta al lavoro: contributi in busta paga. Guadagni fino a 6.900 euro». A leggere questo titolo, nei giorni scorsi sul Gazzettino, una conferma si palesa: in Italia qualche problema sulla politica del lavoro e delle pensioni ce l’abbiamo. E grosso. Da anni sentiamo eminenti rappresentanti delle forze politiche adoperarsi per mantenere bassa l’età pensionabile a suon di quote: siamo partiti da quota cento, adesso siamo a 103. E tuttavia, mentre si opera in questo senso, si dà vita a una serie di bonus per mantenere al lavoro chi potrebbe accedere a questi “scivoli” che permettono un’uscita di fatto anticipata dal mondo del lavoro. Le aziende hanno bisogno di operatori, che non trovano più nelle fasce giovanili della popolazione: perché sono demograficamente scarse, perché partono per altri Paesi (specie i laureati) o perché certi lavori non si fanno più. E anche quelli che a lavorare ci vanno, manifestano spesso una concezione differente del posto di lavoro, il quale non è più al centro del progetto di vita: anzi, numerose ricerche sociologiche ci confermano che nell’era della tecnocrazia tendiamo tutti – non solo i giovani – a vivere con un orizzonte sempre più schiacciato sul presente, un eterno presente nel quale il lavoro serve a sostentarsi e a pagarsi le passioni e il divertimento, solo alcune volte rappresenta una via di realizzazione e soddisfazione in sé. L’incertezza che regna sulle condizioni economiche degli italiani, tuttavia, non aiutano.
Il Report statistico 2025 di Caritas Italiana, reso noto martedì scorso, ci dice che nell’ultimo decennio la povertà si è cronicizzata e trasformata, colpendo prevalentemente proprio i lavoratori, oltre alle famiglie e agli anziani. Oggi il 30 per cento degli occupati – uno su tre – fatica a vivere bene, a dirlo sono le oltre 277 mila persone che nel corso del 2024 si sono rivolte a uno sportello Caritas: il 62,6 per cento in più rispetto al 2014. Vale a dire che se dieci anni fa in cento chiedevano aiuto alla rete Caritas, oggi a quei cento se ne sono aggiunti altri 63, ma se consideriamo solo il Nord Italia il conto sale a 77, come risultato delle crisi a grappolo degli ultimi anni (Covid, energia, materie prime). Il problema casa si conferma una delle emergenze più gravi. Il 33 per cento degli assistiti Caritas manifesta una forma di disagio abitativo, con 22,7 per cento in grave esclusione (senza tetto, sotto sfratto, in condizioni precarie) e 10,3 per cento con difficoltà nel pagamento di affitti e bollette. L’accesso alle cure sanitarie è sempre più difficile: nel 2024, circa 6 milioni di italiani hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie necessarie, con un aumento rispetto al 2023. Non siamo certo di fronte a una situazione inedita. Tutt’altro.
Ciò che non possiamo permetterci è la sclerotizzazione dell’andamento attuale della nostra economia. Se sul piano demografico – driver fondamentale per lo sviluppo – non si vedono cambiamenti di rotta significativi, e l’Istat aggiorna continuamente i minimi storici dei nati in Italia, la politica deve agire sull’innovazione industriale. Tutti gli indicatori ci dicono che il tempo del piccolo è bello è finito, specialmente se sei un Paese che si regge su un tessuto produttivo manifatturiero. Aziende con dimensioni ridotte faticano nella ricerca e nella formazione del personale, fattori necessari per evolvere. Il Veneto, che ha fatto la sua fortuna sul genio tanto quanto sulla disponibilità a sottoporsi a ritmi di lavoro vertiginosi, deve accettare di ripensarsi. Turismo e servizi non possono garantire la stabilità dell’industria: per questa ragione una grossa mano deve venire da Palazzo Chigi. Trovare il modo di sostenere i settori strategici e soprattutto dare vita a politiche attive, in grado di orientare chi deve entrare o rimanere nel mondo del lavoro, è la missione della politica. La costruzione della polis (città) parte dalle fondamenta, altrimenti l’edificio rischia di venire giù.