Serve una legge, ma serve anche un cambio di prospettiva culturale. In tema di fine vita in Italia abbiamo bisogno di un provvedimento legislativo – e sembra che il Governo ci stia finalmente pensando – ma forte è il rischio di perdere di vista le trasformazioni storiche, culturali, sociali e demografiche nelle quali vanno contestualizzati interrogativi nuovi e impellenti. La vicenda di Daniele Pieroni, scrittore di 64 anni che dal 2008 conviveva con il morbo di Parkinson, morto lo scorso 17 maggio a Chiusi in provincia di Siena per l’autosomministrazione di un farmaco letale, ha riavviato un dibattito che rischia di dar voce a visioni contrapposte, a volte schiacciate su posizioni ideologiche, che si concentrano su una parte dei problemi ma che non prendono in esame il quadro complessivo. La stessa vicenda di Pieroni è “unica” perché in Toscana è stata approvata, l’11 febbraio scorso, una legge, impugnata dal Governo ma attualmente in vigore, che introduce una regolamentazione sulla procedura con la quale le persone che vogliono accedere al suicidio assistito possono fare domanda all’Azienda sanitaria locale e stabilisce tempi e modalità di risposta di una commissione che verifica la sussistenza dei requisiti fissati dalla Consulta, affinché l’aiuto al suicidio non costituisca reato.
Ma casi simili, in Toscana e in altre Regioni, sono già avvenuti secondo le indicazioni fissate dalla Corte costituzionale: «Bisogna ripartire dalla sentenza della Corte costituzionale 242 del 2019 che afferma che non c’è un diritto generico al morire, ma che in determinate condizioni è possibile essere aiutati a ricevere un’assistenza medica per predisporre i farmaci necessari. Da quel momento, non per la recente legge della Toscana, ma dall’esecutività del pronunciamento della Corte costituzionale è stato possibile procedere. Alcune Regioni, visto che lo Stato in questi anni non si è attivato, si sono date o si stanno dando leggi attuative per regolare l’esercizio» afferma Enrico Furlan, professore associato di filosofia morale presso il Dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova, dove dirige il corso di perfezionamento in bioetica. Se la Consulta ha stabilito quattro condizioni specifiche – che una persona che chiede il suicidio assistito sia affetta da una patologia irreversibile, che questa provochi sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili, che la persona sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitali e sia capace di prendere decisioni libere e consapevoli – per depenalizzare l’accompagnamento al suicidio, la legge che verrà dovrà stabilire chi prenderà in carico le domande, in quali condizioni e con che tempi. «Sarei perplesso se il compito di esaminare le richieste venisse affidato a un comitato unico nazionale e non a comitati etici radicati nel territorio che possano capire il contesto nel quale nasce la domanda – suggerisce Furlan che allarga la riflessione – Il rischio è che il dibattito bioetico sull’aiuto medico a morire si fermi sulle ragioni filosofiche pro e contro tale pratica. Se in passato la morte improvvisa era temuta, oggi siamo di fronte a un allungamento della vita e al prolungamento della fase finale della vita stessa che riguarda tantissime persone. In un contesto, oltretutto, di generale negazione della morte. Noi gestiamo la fase finale in ospedale, in una modalità squilibrata sugli aspetti sanitari nell’affrontare invecchiamento e infragilimento, ma non ci stiamo dando strumenti sociali oltre che medici per affrontarla. La vera emergenza nei Paesi occidentali è la gestione più umana della fragilità».
I casi drammatici che spesso arrivano alle cronache vanno considerati in modo specifico, ma urgente, secondo Furlan, è un lavoro culturale per formare persone capaci di accompagnamento umano. «L’enfasi sull’aiuto medicalmente assistito a morire nasconde tutto il lavoro non fatto, per esempio, per far conoscere le possibilità già esistenti e previste dalla legge 219 del 2017 su consenso informato e biotestamento che valorizza l’uso delle cure palliative e dà importanza alla relazione di cura e fiducia tra paziente ed equipe curante, all’interno della quale si possono utilizzare strumenti introdotti dalla legge nell’ordinamento italiano, quali il fiduciario, le disposizioni anticipate di trattamento (Dat), la pianificazione condivisa delle cure (Pcc)». Strade praticabili ce ne sono, suggerisce Enrico Furlan, e in modo anche creativo altre possono essere trovate. Uno studio pubblicato sulla rivista Lancet suggerisce quello che viene chiamato “realismo utopico”: se la morte arriva più tardi nella vita per molti e il morire è spesso prolungato, dobbiamo riportarli in un contesto familiare e comunitario, con comunità preparate a farsi carico dell’accompagnamento della persona morente all’interno di una relazione di cura.
«Sentir parlare di suicidio assistito è doloroso perché è molto diverso da quello che faccio tutti i giorni – argomenta Elena Canavese, counselor psiconcologica e assistente spirituale in cure palliative – Negli anni ho avuto il privilegio di incontrare molti malati oncologici e due pazienti molto giovani affetti da Sla che prima avevano scelto l’eutanasia, non erano disposti a Peg (gastrostomia endoscopica percutanea, utilizzata quando un paziente non è in grado di alimentarsi normalmente per bocca, ndr) e respiratori artificiali e poi hanno deciso di abbracciare una visione spirituale della vita che li ha resi lungoviventi per tre e quattro anni rispettivamente. E sono stati anni nei quali hanno portato a compimento progetti che hanno dato un senso non alla loro morte, ma alla loro vita». Quello che Elena Canavese ha scoperto, dopo aver scelto la strada dell’accompagnamento delle persone malate 15 anni fa dopo un’esperienza personale con la migliore amica e si è specializzata con il metodo Simonton, è l’importanza di allenarsi tutti i giorni ad avere cura della vita. «Parlare del morire è importante anche per dare valore alla nostra quotidianità di cui dobbiamo essere responsabili. Morire è difficile sempre, anche se si è preparati. Da terapeuta ho imparato ad accogliere la fatica, a volte la rabbia e il senso di ingiustizia che vive il morente. Che si censura per proteggere gli altri. Avere qualcuno accanto che accoglie con umiltà incondizionata questa fatica, le parole e i silenzi di chi non può più parlare, può essere d’aiuto. Per questo è importante che nelle equipe delle cure palliative, oltre ai sanitari ci sia anche un assistente spirituale».
Nei giorni scorsi, per la prima volta il centrodestra ha discusso ufficialmente del fine vita. Al vertice di Palazzo Chigi con la premier Meloni, Salvini, Tajani, Lupi, Nordio, Mantovano e i senatori di maggioranza, si sono gettate le basi alla ricerca di un’intesa su un testo preliminare in vista della calendarizzazione in Senato del prossimo 17 luglio. Tre le linee principali emerse: fare una legge, rafforzare le cure palliative come “quinto paletto” oltre quelli determinati dalla Consulta, e affidare a un Comitato etico nazionale la valutazione finale delle richieste. Restano divisioni sul ruolo e il coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale. Timori, invece, da parte dell’opposizione: la sensazione è che il centrodestra voglia produrre una legge “ingessata”, che scoraggi la richiesta di accedere alle procedure di fine vita.
La miglior vita possibile, il periodico sulle cure palliative
La Fondazione padovana La Miglior vita possibile lancia un appello per superare le disuguaglianze nell’accesso alle cure palliative pediatriche, rivolto alle istituzioni e ai media. Lo scorso 12 giugno, nella sede del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti a Roma, è stato presentato il nuovo periodico La miglior vita possibile per raccontare storie vere e umanizzare un tema delicato, promuovendo consapevolezza e dignità. In Italia circa 35 mila bambini avrebbero bisogno di cure palliative, ma solo il 25 per cento riceve assistenza adeguata. «Le Cpp non significano morte, ma qualità della vita per i piccoli pazienti e sostegno per le loro famiglie – evidenzia la Fondazione – Nonostante la legge 38/2010 le includa nei Lea, l’accesso resta limitato e disomogeneo: solo nove Regioni dispongono di hospice pediatrici».
«È arrivato il tempo che il Governo legiferi sul fine vita anche perché o lo si fa per scelta o toccherà farlo per necessità» ha ribadito di recente il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, ricordando che dal 2019 nella nostra Regione ci sono state 15 pratiche e tre autorizzazioni per il trattamento di suicidio assistito. «O consideriamo il malato che si trova nelle condizioni previste dalla Consulta protagonista e allora la politica deve fare un passo avanti, oppure chi soffre viene relegato a ruolo di comparsa. Chi sostiene che la strada delle cure palliative, sulla quale comunque continuiamo a investire, è sufficiente, non conosce il problema. Trovo assurdo che qualcuno si opponga alla libertà di decidere di malati terminali».