Quando si parla di costi della politica, diretti o indiretti che siano, è facile scadere nel banale qualunquismo. Il vento forte dell’anti-politica non ha mai smesso di soffiare in un Paese dove, anche quando piove, è pur sempre colpa del Governo, ladro per giunta. Non è semplice approcciare il tema con quel rigore scientifico che merita e che è indispensabile, poi, per individuare e applicare quei correttivi di finanza pubblica e di buon senso che dovrebbero limitarne l’impatto sulle casse erariali. In uno studio pubblicato dalla prestigiosa rivista scientifica Econometria e curato da Enrico Rettore, docente dell’Università di Padova, con un gruppo di esperti, Federico Cingano (Banca d’Italia), Filippo Palomba (Princeton University) e Paolo Pinotti (Università Bocconi), il quadro offerto dall’Italia appare sconfortante: se si adottassero criteri oggettivi nell’assegnazione dei sussidi, avremmo risparmiato l’11 per cento per ogni posto di lavoro creato. Non solo, se invece i fondi fossero stati distribuiti solo su indicazione della politica, i costi sarebbero saliti del 42 per cento e il dato è tanto più affidabile, rotondo, se rapportato all’enorme campione di 77 mila progetti (e 26 miliardi di euro totali) preso in esame dai ricercatori nei loro studi. Bene, anzi, male: la politica e la discrezionalità dei politici nell’impiego di fondi pubblici hanno delle ricadute non positive in termini di costo-efficacia ma da qui a capire se oltre alla colpa c’è anche il dolo, è tutto da verificare: «Non siamo in grado di dire quali siano le cause per le quali la parte discrezionale funziona così male – spiega Enrico Rettore – cioè se sia malafede o se sia incapacità, noi vediamo solamente i risultati». E i risultati parlano chiaro: se l’avessero fatto, un’allocazione ottimale, basata sui dati degli effettivi rendimenti dei progetti, avrebbe dimezzato i costi con benefici maggiori nelle Regioni del Mezzogiorno. «Le autorità regionali non hanno fatto buon uso, almeno in termini relativi rispetto alle regole date, della loro discrezionalità», chiosa ancora il docente. Le risorse potevano essere impiegate meglio, insomma, ma un problema emerge chiaramente: se alla politica si toglie la discrezionalità, la possibilità di assumersi la responsabilità di decidere come e quando aprire i cordoni della borsa, che ne rimane? Perché se è pur vero che quando la squadra vince la coppa si è tutti campioni allo stesso modo, è difficile godersi i festeggiamenti dalla panchina e magari sperare di tornarci anche la stagione successiva. E qui riecco montare come la panna la retorica da prima Repubblica, ma buona pure per l’inizio della terza: le raccomandazioni e le segnalazioni che portano, o dovrebbero portare, apprezzamento al partito ma soprattutto assicurare una fedeltà elettorale che confligge con le urne miseramente vuote. «Alla politica rimarrebbe il margine di discrezionalità nella scelta degli ambiti nei quali intervenire, e non è poco – riflette ancora il prof. Rettore – Su questo aspetto non ho il minimo dubbio che sia più che legittimo l’esercizio della discrezionalità da parte del decisore politico. Una volta compiuta la scelta di intervenire in un certo modo, a quel punto la questione diventa spendere bene i soldi che si decide di investire e allora diventa rilevante il risultato della nostra ricerca».
Lo studio, infatti, arriva in un momento cruciale: con la politica industriale al centro dell’agenda, dal Green Deal europeo all’Inflation Reduction Act americano, l’attenzione si concentra non solo su quanto spendere, ma su come. Ai politici toccherebbe il compito di fare politica esercitando il proprio ruolo ex ante e non ex post, contribuendo a definire prima i settori dove intervenire e contribuendo a definire criteri chiari di intervento a livello normativo. Una chiamata di responsabilità e non un atto a volte surrettizio per cui le cose si fanno, si finanziano, non si rifiutano ma tutt’al più non si negano, a volte si confessano. Paradossalmente questo aprirebbe a una rinnovata centralità del ruolo del decisore politico e del lavoro delle assemblee legislative, chiamate ad appropriarsi o ri-appropriarsi del loro ruolo di indirizzo e di controllo da esercitarsi con coraggio e determinazione per raggiungere degli obiettivi chiari fin dal principio.
La risposta di questo studio porta a una evidenza: la qualità dell’allocazione è decisiva quanto la quantità delle risorse. «Non basta spendere di più: bisogna spendere meglio – è la conclusione di Paolo Pinotti, professore di Economia e Dean of Faculty alla Bocconi ed Enrico Rettore, docente al Dipartimento di scienze economiche e aziendali dell’Università di Padova – Quando i fondi vengono assegnati in base a valutazioni politiche e non a criteri oggettivi, rischiamo di sprecare risorse preziose, soprattutto nelle aree dove servirebbero di più».