Idee | Lettera.D
«Non lo riconosco più», ammette la madre al colloquio di accoglienza in consultorio. Suo figlio Giovanni, quindici anni, è stato coinvolto in un furto ai danni di un coetaneo, insieme a un gruppo di ragazzi più grandi. Quando lo incontriamo per la prima volta, appare molto diverso dall’immagine che ci viene descritta dai genitori. In casa, raccontano, assistono a un crescente livello di violenza, verbale e fisica: urla, lancia oggetti, spacca le porte, bestemmia. Ai colloqui, invece, è taciturno, risponde a monosillabi, evita lo sguardo. Grazie a un lavoro di ascolto paziente emergono elementi importanti, non individuabili a uno sguardo superficiale: la sensazione di non essere visto, la rabbia verso scelte familiari non comprese, la conflittualità con la figura paterna, la frustrazione vissuta a scuola, il bisogno di appartenere a un gruppo come unico spazio di riconoscimento. Il gesto violento è la manifestazione di un disagio profondo e silente. La storia di Giovanni non rappresenta un’eccezione. In consultorio incontriamo altri adolescenti così: ragazzi che agiscono per ciò che non riescono ancora a dire, il passaggio all’atto violento come unica via per esprimere una sofferenza profonda, non riconosciuta, agitata e non verbalizzata. Il nostro compito è offrire loro uno spazio in cui il silenzio possa diventare parola, aprirsi alla relazione, rischiare e ritrovare un progetto di sé. Gli atti di violenza compiuti da giovani e giovanissimi sono sempre più presenti nelle cronache, non solo nazionali, ma anche locali. Dietro ogni notizia non ci sono fatti lontani, ma vite reali e vicine. Si tratta di una violenza che si diffonde in modo sottile, pervasivo. Esplode all’improvviso, ma è spesso il frutto di un accumulo silenzioso: nelle disattenzioni quotidiane, nelle pressioni sociali a conformarsi a modelli irraggiungibili, nella marginalizzazione politica delle giovani generazioni, nelle dinamiche economiche disumanizzanti, nella continua esposizione a scenari di crisi e catastrofe che amplificano il senso di instabilità. Sottrarsi al nichilismo e alla violenza che attraversa il nostro tempo non è semplice. E tuttavia, per chi opera nella cura, nell’educazione, nella formazione, rappresenta un compito civile imprescindibile. Non si tratta solo di rispondere a comportamenti devianti, ma di riconoscere e dare forma al vuoto di senso che spesso li precede. In un tempo in cui la presenza adulta come riferimento simbolico si è progressivamente indebolita, i giovani si trovano esposti a una fragilità emotiva non contenuta, sommersi da stati affettivi intensi che non trovano né parola né confine. La mancanza di adulti capaci di assumere posizioni non autoritarie, ma autenticamente autorevoli, alimenta una richiesta diffusa di contenimento e orientamento. Quando questa funzione non viene incarnata dalle figure educative e relazionali, tende a trasferirsi altrove: nella richiesta, più o meno esplicita, di un intervento da parte della giustizia penale, vissuta come unico argine possibile alla perdita di orientamento.
Così, il sistema sanzionatorio finisce per assumere, oltre al suo ruolo repressivo, anche una funzione simbolica: surrogare ciò che un tempo era affidato alla capacità degli adulti di sostenere e regolare all’interno di un orizzonte comunitario coeso. Per questo, oggi più che mai, è necessaria una responsabilità condivisa. Non solo delle istituzioni, ma di ogni cittadino che scelga di abitare il proprio ruolo educativo — come genitore, insegnante, operatore, educatore, sacerdote, amministratore — con consapevolezza, coerenza e presenza. Il Consultorio familiare Cif di Padova interviene su questo fronte con una visione integrata. L’equipe multidisciplinare – composta da psicologi, psicoanalisti, educatori, assistente sociale e consulenti legali – opera su tre livelli principali: prevenzione e formazione, attraverso progetti nelle scuole e nei gruppi giovanili, per stimolare nei ragazzi e nelle ragazze la capacità di interrogarsi criticamente sul proprio contesto di vita, riconoscere e nominare i propri desideri, e metterli in relazione con il proprio mondo emotivo; sostegno clinico ed educativo, con percorsi rivolti ad adolescenti in difficoltà, attivati su iniziativa dei genitori, che si sentono disorientati e alla ricerca di strumenti per ricostruire un dialogo credibile e affettivamente saldo con i propri figli; collaborazione con le istituzioni, in rete con i servizi sociali, le realtà parrocchiali, le scuole, le forze dell’ordine o il sistema giudiziario minorile, per affrontare i casi più complessi con un approccio orientato non solo alla responsabilizzazione, ma anche alla riparazione. Il fenomeno della violenza giovanile ci chiede oggi uno sforzo collettivo, profondo. Non solo per contenerlo, ma per comprenderlo. E soprattutto per prevenire che tanti giovani continuino a esprimere con la violenza ciò che, forse, nessuno ha insegnato loro a dire.