Chiesa
“Il vescovo è tale in quanto partecipa alla successione apostolica dentro un collegio stretto da vincoli di comunione con Pietro e sotto Pietro”. Mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, riflette sulla collegialità e sulla comunione episcopale a partire dal discorso di Papa Leone XIV ai vescovi italiani. Un confronto che attraversa il Concilio Vaticano II, il ruolo della Cei e la missione della Chiesa in Italia nel contesto culturale e pastorale di oggi.
Il Papa, incontrando i vescovi italiani, ha citato Paolo VI e parlato di un “legame comune e particolare” tra i vescovi italiani e il Vescovo di Roma. Come si coltiva oggi questa comunione, in un tempo segnato da trasformazioni sociali, culturali ed ecclesiali?
Paolo VI è stato decisivo nel dare forma alla Cei così come la conosciamo oggi. Già nel 1964, nell’incontro con la plenaria dei vescovi italiani, si gettarono le basi di questo legame; poi seguirono il nuovo statuto nel 1965 e un altro incontro fondamentale nel 1966. In quel contesto, Paolo VI riconosceva un legame particolare per ragioni storiche, geografiche e spirituali. Lo definiva come un vincolo di fedeltà, obbedienza, collaborazione e conversazione con il Papa, che è vescovo di Roma e primate d’Italia.
Questo legame riguarda anche il ruolo del Pontefice nei confronti delle Chiese in Italia. Come viene vissuto oggi?
Il Papa – così come ricordato poc’anzi con Paolo VI e da lui in poi – avverte il dovere di dedicare una particolare attenzione alle questioni italiane. Giovanni Paolo II parlava del suo essere vescovo con gli altri vescovi per l’Italia.
È una responsabilità non solo istituzionale, ma spirituale e pastorale, quasi una forma di “immanenza” alla vicenda della Chiesa in Italia.
L’Italia è un punto di riflessione per la Chiesa universale. In che modo?
Per la presenza di Roma, la Chiesa italiana assume un rilievo speciale. Pensiamo al numero di ordini religiosi presenti nella capitale, alle università pontificie, ma anche alla posizione dell’Italia nel cuore del Mediterraneo e al centro dell’Europa. Non dimentichiamo che l’Italia ha contribuito in modo determinante al progetto europeo: basti pensare all’opera di De Gasperi insieme a Schuman e Adenauer.
Chi è mons. Giuseppe Baturi
Arcivescovo metropolita di Cagliari dal 2019, mons. Giuseppe Baturi è segretario generale della Cei dal 2022. Nato a Catania nel 1964, è canonista e ha ricoperto numerosi incarichi in ambito pastorale e giuridico. Dal 2012 al 2019 è stato direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi giuridici della Cei e sottosegretario della Conferenza episcopale italiana. È stato anche vicario generale dell’arcidiocesi di Catania. Attento al tema della sinodalità, ha guidato il Comitato per il Cammino sinodale della Chiesa italiana.
Anche la Cei ha ripreso questa vocazione con le recenti iniziative sul Mediterraneo.
Sì, è un esempio di come il legame tra la Chiesa italiana e il Papa continui a produrre frutti. Le iniziative sostenute da Francesco e da Leone XIV ci ricordano che il Mediterraneo richiede oggi una particolare attenzione. Il discorso di Leone XIV è stato, in questo senso, un segno di cura e incoraggiamento.
Il Pontefice ha parlato anche della varietà della Chiesa italiana, tra radicamento popolare e sfide della scristianizzazione. Come tenere insieme questi due poli?
Il cattolicesimo italiano è segnato da una profonda diversità. In alcune aree si manifesta una vitalità popolare che si esprime nella pietà, nelle feste religiose, nei santuari. In altre, la secolarizzazione ha avuto effetti più radicali. Questa complessità ci obbliga a una lettura differenziata e a una presenza ecclesiale capace di rinnovarsi.
Leone XIV ha detto di voler ispirare il proprio ministero ai principi della collegialità. Quali forme concrete vede oggi nella Cei e nelle Conferenze episcopali regionali?
Il Concilio Vaticano II ha sottolineato due aspetti complementari: il vescovo è pastore della propria diocesi, ma è anche membro del collegio episcopale. Ciò implica una responsabilità universale, sotto il Papa, ma anche una partecipazione alla comunione concreta con gli altri vescovi.
Quali sono i vantaggi pastorali di una collegialità vissuta in modo effettivo, non solo affettivo?
L’esperienza di comunione, quando è reale e non solo dichiarata, rende più incisiva l’azione pastorale. La Chiesa italiana non può affrontare da sola le grandi sfide del tempo: pensiamo al tema dei giovani, alla questione antropologica, alla cura della vita. Abbiamo bisogno di affrontare queste sfide insieme, come Chiese in comunione.
Emerge un legame tra collegialità e sinodalità?
Senza dubbio. Leone XIV ci invita a vivere una forma di unità che si fonda sul confronto, sul dialogo schietto, sul discernimento comune. Tutto questo va compreso dentro una prospettiva più ampia, che è la sinodalità: il coinvolgimento di tutto il popolo di Dio nei processi di decisione e di orientamento pastorale.
Il Papa ha insistito anche sulla necessità di compiere scelte coraggiose. In quali ambiti vede oggi questo bisogno di coraggio condiviso?
Siamo chiamati ad azioni comuni, coraggiose e fiduciose, che siano segno di una Chiesa vicina alla vita delle persone. Penso, ad esempio, alla cura dei giovani, alla promozione della dignità umana, all’annuncio esplicito del Vangelo in una società che spesso vive nella frammentazione e nella solitudine. Il coraggio non è rigidità: è apertura all’azione dello Spirito.
Nel discorso si parla anche di una collegialità tra vescovi e con il successore di Pietro. Come si custodisce e si rafforza questa doppia dimensione?
È un unico movimento. Il vescovo è tale perché partecipa alla successione apostolica, ed è inserito in un collegio unito dalla comunione con Pietro e sotto Pietro.
Come leggere, in questa prospettiva, l’insistenza di Leone XIV sull’unità e sulla condivisione di scelte pastorali?
Il Papa ci richiama costantemente a un’unità che non annulla la diversità, ma la armonizza. La Chiesa è ricca di carismi, ministeri, sensibilità diverse: ma questa varietà deve tendere alla comunione. Il Concilio ci ha insegnato che l’unità non è uniformità: è consonanza nella fede, nella carità, nella celebrazione dei sacramenti.
Qual è il valore degli incontri periodici tra il Papa e i vescovi italiani?
Sono occasioni preziose per confrontarsi, per lasciarsi orientare e anche per condividere con lui il discernimento sulle linee pastorali da adottare. Il Papa ci invita a vivere con lui un legame che non è solo giuridico, ma profondamente spirituale. Nella sua voce riconosciamo il richiamo a una Chiesa vicina, ospitale, missionaria.
Le parole del Papa
Nel discorso rivolto ai vescovi italiani il 17 giugno 2025, Papa Leone XIV ha riaffermato la visione conciliare della collegialità, richiamando la Lumen gentium: “Il Signore Gesù costituì gli Apostoli a modo di collegio o ceto stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro”. Ha esortato i vescovi a vivere una collegialità tra loro e con il Vescovo di Roma, in una dinamica di comunione affettiva ed effettiva. “Restate uniti e non difendetevi dalle provocazioni dello Spirito”, ha detto, invitando a far diventare la sinodalità “mentalità, nei processi decisionali e nei modi di agire”.
Il Pontefice ha citato anche il ruolo della Cei nel rapporto con le istituzioni. Come coniugare fedeltà evangelica e autonomia ecclesiale nei rapporti con lo Stato?
Questo equilibrio nasce da un processo storico importante. Già Paolo VI, nel contesto del Concilio, invitò i vescovi italiani ad avere un legame speciale con la Santa Sede e, insieme, a maturare un’autonomia di pensiero e organizzazione. La revisione dei Patti Lateranensi nel 1984 e lo statuto del 1985 hanno rafforzato il protagonismo della Cei come soggetto autorevole di interlocuzione con le istituzioni, a servizio del bene comune.
Quale compito ha oggi la Cei nel contesto civile italiano?
La Cei ha una responsabilità: rappresentare le Chiese particolari e farsi soggetto di riflessione e proposta, sempre a partire dalla dignità della persona e dallo sviluppo del Paese.
Una Chiesa che sa essere unita può diventare segno profetico in una società frammentata.
L’unità ecclesiale può essere anche un segno civile e politico?
Sì, perché mostra che la differenza non impedisce la comunione. La varietà della Chiesa italiana – nelle sue componenti territoriali, culturali, sociali – può essere immagine di un Paese che costruisce unità attorno alla dignità della persona: nel lavoro, nell’accoglienza, nella cittadinanza, nella difesa della vita.
Che cosa sente di affidare oggi al Papa, a nome della Chiesa italiana?
Penso che il primo compito del Papa sia testimoniare la verità, e noi sentiamo il bisogno di vivere personalmente ciò che lui ci ha chiesto: un’azione pastorale condivisa, un rapporto personale con Cristo, un annuncio esplicito del Vangelo.
Che volto di Chiesa immagina per il futuro?
Una Chiesa lieta, vicina, accogliente. Una Chiesa che discute nella sinodalità, che pensa insieme, che cammina con i poveri e gli ultimi. Una Chiesa che ama. Più che un augurio, voglio dire una certezza: nello scoprire la gioia della fede, le strade di un annuncio più luminoso e la forma della Chiesa come comunione aperta a tutti, Leone XIV sarà con noi padre e maestro.