Superata la stagione dell’emergenza legata alla pandemia, la sanità veneta è alle prese con una profonda ristrutturazione, complici anche i massicci interventi finanziati dal Pnrr la cui attuazione è prevista entro il prossimo anno. Le cosiddette cure primarie – i medici di famiglia e i pediatri oltre a quella che una volta si sarebbe detta “guardia medica” – sono un vero e proprio «problema irrisolto» tanto a livello nazionale quanto nella nostra Regione. Non usa mezzi termini Ires Veneto nel suo report, curato da Barbara Bonvento e Manuela Nicoletti e presentato lo scorso venerdì 27 giugno, che descrive lo stato della situazione in Veneto. A complicare le cose sembra esserci una perdita di interesse verso la professione che si misura anche dall’elevato numero di posti vacanti nel corso di formazione, circa il 41 per cento in Veneto a fronte di un 15 per cento a livello nazionale. La percezione è che la medicina generale venga vista dagli aspiranti dottori come una seconda scelta, complice anche la minor entità delle borse rispetto ad altre specializzazioni. Si diventa medici di base perché magari non si è avuto accesso alla prima scelta di studio o in attesa di poter proseguire una carriera che, almeno in termini di ammontare della borsa di specializzazione, è più gratificante a livello nazionale che locale. Questa disaffezione, unita al mancato turnover per i medici che vanno in congedo, ha portato le zone cosiddette carenti a raddoppiare dal 2019 e a una media di pazienti per medico di 1.524, lontana da quella nazionale di 1.335 e superiore a quel livello massimo ideale che viene fissato a 1.500 pazienti per medico condotto. E per quei medici che rimangono o che comunque decidono di dedicarsi alla medicina “di base”, il report evidenzia un peso burocratico non indifferente a cui dover far fronte, unito a carichi assistenziali sempre più insostenibili verso una popolazione che invecchia e cronicizza ogni giorno di più. «Questo significa che molte persone hanno difficoltà di accesso all’assistenza di base – spiega Paolo Righetti del Dipartimento welfare di Cgil Veneto – o comunque che non hanno la possibilità di scegliersi il medico, soprattutto nelle zone più periferiche e disagiate. E che molti medici hanno un carico assistenziale elevatissimo che incide negativamente sulla tempestività e sulla qualità del servizio. La situazione è destinata a peggiorare anche a causa dei futuri pensionamenti: le previsioni nel 2025 sono di 862 entrate a fronte di 1.018 uscite dalla professione medica». Un deficit che la Regione punta a compensare, si legge ancora nel rapporto, anche aumentando il numero massimo di assistiti a 1.800, a fronte di un’indennità di 2 euro per assistito erogato sopra la famosa quota ottimale di 1.500. La situazione non migliora se si guarda ai pediatri: al netto di punte di eccellenza regionali come l’assistenza domiciliare specialistica e l’hospice pediatrico e dei buoni risultati sulla mortalità infantile e l’assistenza del bambino cronico, in Veneto le zone critiche nel 2024 erano 32 a fronte delle 13 del 2019. Per quanto riguarda i medici di continuità assistenziale, poi, la continuità viene garantita nelle diverse Ulss da incarichi provvisori assegnati ai medici e non titolari. Ai dottori di quella che fu la guardia medica, insomma, tocca sopperire alle carenze dei medici di base. Questa sorta di supplenza deriva dalla possibilità da parte delle aziende di dichiarare, al massimo per un anno, zona disagiata le sedi di continuità assistenziale in presenza particolari situazioni, riconoscendo ai medici che operano in tali sedi un aumento della quota oraria prevista per tale attività. Ecco, perciò, che di fronte alla dichiarazione di disagio quello che dovrebbe essere un servizio parallelo, destinato a coprire i turni vacanti e notturni, si trasforma in vera sostituzione, riconoscendo ai medici che si rendono disponibili un aumento retributivo che comunque non sembra sufficiente a fermarne la progressiva emorragia mentre si assiste di pari passo all’aumento delle zone carenti. Erano 324 nel 2019; sono, evidenzia ancora il rapporto, diventate 728 nel 2024. «Come Cgil Veneto chiediamo alla Regione di avviare un progressivo superamento della carenza di medici, recuperando i ritardi nella programmazione dei percorsi formativi – mette in chiaro Tiziana Basso, segretaria generale del sindacato – Devono essere definite le funzioni e le modalità dell’attività che i medici di base devono prestare nelle case di comunità, deve essere garantita la copertura del presidio orario prevista». Già, le case di comunità: mentre i tempi previsti dalla programmazione europea si avviano spediti a conclusione, i cantieri procedono a macchia di leopardo. Definite dal report Ires come «l’ultima sfida dell’assistenza primaria», le case si configurano come strutture multidisciplinari che offrono servizi di assistenza primaria, prevenzione e promozione della salute. «L’esigenza di una sempre maggiore integrazione tra tutte le strutture e il recente avvio del nuovo ruolo unico per i medici dell’assistenza primaria – chiosa ancora la segretaria di Cgil – confermano la necessità di passare a un’assunzione diretta dei medici di base da parte delle Ulss, almeno a partire dai nuovi incarichi».
L’accesso alla professione avviene attraverso un corso triennale di formazione specifica. La Fondazione Gimbe ha evidenziato una crescente discrepanza tra il numero di borse di studio finanziate per la formazione dei medici di medicina generale e il numero effettivo di candidati che partecipano ai concorsi. Nel 2024, a livello nazionale, sono stati banditi 2.623 posti per il corso di formazione specifica in medicina generale, ma solo 2.240 candidati hanno partecipato, lasciando vacanti 383 borse, pari al 15 per cento. In alcune regioni la situazione è ancora più critica tra cui il Veneto, dove il 41 per cento delle borse è rimasto scoperto.
Da lunedì 15 giugno la sanità veneta ha ritoccato le tariffe delle proprie prestazioni. Un provvedimento deciso dalla Giunta regionale del Veneto con la delibera 581 del 29 maggio 2025, la quale a sua volta risponde al Dpcm del 12 gennaio 2017 sui Livelli essenziali di assistenza (Lea). La definizione delle nuove tariffe ha portato a un processo complesso, con diverse proroghe a livello nazionale e a livello regionale. Le nuove tariffe si applicano a tutte le prestazioni erogate a partire dal 15 giugno, comprese quelle già prescritte o prenotate precedentemente. Tali prestazioni potrebbero pertanto subire alcune variazioni nel ticket da corrispondere. Il monito di Cisl Veneto: «Una prestazione prima sotto la quota massima di euro 36,15 per chi non era esente in base al reddito, oggi vede aumenti che possono toccare anche i 6-7 euro a prestazione».
A livello nazionale, fra quattro anni, a fronte dei 5.289 pediatri che andranno in pensione, saranno solo 2.900 i nuovi specialisti, ovvero ne mancheranno all’appello 2.389. Se guardiamo a livello locale, nel corso del 2023 sono state svolte nella Regione del Veneto 436.536 prestazioni dai pediatri di libera scelta a cui si aggiungono: 1.311 visite domiciliari; 2.973 accessi domiciliari; 264.124 bilanci di salute. Anche quella dei pediatri in Veneto rappresenta una situazione emergenziale: nel 2024 si evidenziano in totale quattro zone carenti ordinarie e 28 zone carenti straordinarie. Le zone carenti ordinarie in Veneto, si legge nel rapporto Ires, rappresentano quelle che, per ciascun ambito territoriale, fissano un massimale di un pediatra per ogni 600 residenti, o frazione superiore a 300, di età compresa tra i zero e 6 anni.
Da dieci anni alla guida della sanità veneta, l’assessore regionale vicentino Manuela Lanzarin è stata protagonista di tutte e tre le stagioni: quella prima della pandemia, quella contrassegnata dall’emergenza sanitaria e quella successiva, divisa tra i grandi investimenti finanziati dal Piano nazionale ripresa resilienza e le sfide di una programmazione futura. «Stiamo assistendo a una perdita complessiva di attrattività per tutte le professioni sanitarie – esordisce Lanzarin – Una volta c’era la corsa per riempire tutte le borse di specializzazione, adesso ci sono corsi dove rimangono posti vuoti e altri dove le domande sono in eccesso, come a dermatologia. Un fenomeno analogo lo registriamo nell’infermieristica e nei pronto soccorso ed è legato al carico di lavoro e alle responsabilità». La situazione viene ulteriormente complicata, paradossalmente, dall’aumentato numero delle borse disponibili: «Le seimila borse disponibili in tutta Italia, dal 2020 sono arrivate alle 14 mila di oggi – ricorda l’assessore – questo fa sì che molti che prima sceglievano la medicina di famiglia, oggi riescono ad accedere alle borse di specializzazione, magari dopo aver frequentato il primo anno da medici di base»· In gergo si parla di vasi comunicanti: si inizia un percorso e poi lo si modifica, passando da un “iter” organizzato sulla base di scuole gestite a livello locale a uno basato sulla specializzazione a livello nazionale. «Da più parti c’è la richiesta di passare da una scuola di medicina generale su base regionale a una vera e propria specializzazione – riflette ancora Manuela Lanzarin – Questo implicherebbe avere lo stesso rimborso delle specializzazioni universitarie, rendendo la scelta più appetibile. È una discussione ancora in itinere su cui anche noi siamo d’accordo. Serve però una programmazione complessiva che tenga conto di tutte le figure necessarie, senza privilegiarne una a scapito delle altre perché sono interdipendenti». Serve, insomma, una visione coordinata e d’insieme per scongiurare il rischio, com’è successo in parte negli anni scorsi, che si vadano a sguarnire alcuni percorsi di specializzazione riempiendone altri, creando scompensi a lungo termine. Come rispondere, invece, alla burocrazia su sui si incagliano tanti professionisti? «Oggi c’è tanta burocrazia perché ai medici compete tutta una procedura legata al trattamento dei dati sensibili oltre a una parte burocratica e amministrativa che altrimenti darebbe adito a contenziosi – mette in chiaro Lanzarin – Siamo consapevoli di tutto questo e ciò che possiamo fare è cercare di alleggerire la situazione attraverso la digitalizzazione e il ricorso alla piattaforma tecnologica».
Dalle rilevazioni effettuate dal Ministero della salute nel 2023 emerge come la media nazionale relativa al numero dei pazienti per medico è pari a 1.335 ma il valore è più alto al Nord (1.498), rispetto al Centro (1.256) e al Sud (1.246). In dettaglio, le regioni con il maggior numero di assistiti per medico di base sono: Trentino- Alto Adige (1.534), Lombardia (1.547) e Veneto (1.555) mentre le ultime sono Sicilia (1.119), Basilicata (1.089) e Molise (1.052). Guardando al Veneto, poi, i picchi si registrano all’interno dell’Ulss 2 Marca Trevigiana (1.635) e Ulss 5 Polesana (1.641), mentre l’Ulss 6 Euganea conta 1.533 pazienti per medico e l’Ulss 8 Berica 1.500.