L’assedio della Gerusalemme d’Europa. E il massacro dei musulmani. A Sarajevo, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996, il più lungo accerchiamento nella storia di fine Novecento. A Srebrenica nell’estate di trent’anni fa 8.372 morti perché di fede islamica. Una lezione che l’Europa di Bruxelles, e non solo, avrebbe dovuto mandare a memoria per impedire la replica di guerre, più o meno di religione, al di là dei suoi confini o sulle sponde del Mediterraneo.
Ivica Đikić, classe 1977, da cronista si è applicato nella ricostruzione dettagliata della “banalità della carneficina” grazie alla disciplina militare di chi pianifica la logistica dello sterminio per conto dei generali. Bottega Errante Edizioni ha appena pubblicato la seconda edizione aggiornata e ampliata di Metodo Srebrenica (traduzione di Silvio Ferrari e Marijana Puljić, pagine 337, euro 20 con la postfazione di Teofil Pančić). Il genocidio a Srebrenica è stata un’operazione organizzata dal colonnello Ljubiša Beara in tre giorni e tre notti nel luglio 1995. Pagina dopo pagina, Đikić lo insegue negli spostamenti e nelle decisioni. Di più: arriva fino al Tribunale dell’Aja. Ma resta ancora da sentenziare chi ha immaginato e voluto una montagna di morti civili in Bosnia. La responsabilità politica, insomma.
«Volevo scrivere un romanzo di finzione sul genocidio, ma in dieci anni di lavoro non sono riuscito a trovare un modo – confessa Đikić – In quei dieci anni, però, mi sono dedicato a una ricerca approfondita, e a un certo punto ho capito che solo un approccio documentaristico (con la struttura, l’organizzazione e lo stile narrativo di un romanzo) poteva condurmi a un insieme coerente e significativo. Mi sono reso conto che la mia immaginazione artistica non era abbastanza sviluppata per competere in modo credibile con la realtà di un crimine quasi surreale».
Un lavoro certosino, con l’abnegazione che non ammette deroghe di fronte al “metodo Srebrenica” del colonnello Ljubiša Beara. «La maggior parte del materiale l’ho trovata negli archivi elettronici del Tribunale dell’Aja: centinaia di migliaia di pagine di documenti. Il resto in libri, articoli giornalistici, conversazioni con persone che conoscevano Beara prima della guerra… In una mole di dati quasi sterminata il lavoro principale è stato distinguere ciò che era importante da ciò che non lo era, e separare la verità dalla manipolazione».
Capitano di vascello, classe 1939, avrebbe dovuto guadagnarsi la pensione da militare di Tito. Invece Beara resta folgorato dal nazionalismo serbo e ne diventa cieco servitore. Capo della Direzione di sicurezza del Comando supremo dell’Esercito della Repubblica Serba, è l’organizzatore del massacro: «É stato lui a ideare e compiere i passi chiave nell’attuazione del genocidio. Ha cercato chi avrebbe ucciso, ha scelto i luoghi in cui si sarebbe ucciso, ha coordinato la mobilitazione di centinaia di autobus e camion per il trasporto dei prigionieri verso i campi e i luoghi di esecuzione, ha trovato la manodopera e i mezzi per scavare le fosse comuni».
Il militare titino diventa il seguace di Slobodan Milošević e Ratko Mladić e “lavora” senza tregua, leale, senza mai discutere gli ordini superiori. Il racconto, puntuale e documentato, di Đikić cristallizza ogni singolo momento della giornata del colonnello Beara alle prese con la pianificazione della strage infinita.
E perfino oggi nell’ex-Yugoslavia la memoria di Srebrenica riaccende la guerra delle opinioni che combacia con l’eredità del nazionalismo populista. Afferma Đikić: «Le élite politiche e intellettuali serbe, sia in Serbia che in Bosnia Erzegovina, avrebbero già dovuto capire che negare o relativizzare il genocidio e tutti gli altri crimini significa produrre una lunga infelicità, prima di tutto per il proprio popolo, e prolungare una vita nell’odio, che nasce dall’ignoranza e dall’assenza del desiderio di conoscere e riflettere. Le élite patriottiche e nazionaliste (e non vale solo per i serbi e per Srebrenica) incoraggiano questa disattenzione e ignoranza perché così è più facile manipolare le emozioni collettive a vantaggio dei propri interessi concreti».