Fatti
Nei territori ucraini controllati dall’esercito russo dal febbraio 2022 la vita scorre come a ritroso nel tempo, fino agli anni in cui da Leopoli a Vladivostok era tutta Unione Sovietica. Lungo le strade e nelle scuole del Donbass la lingua russa è tornata ad essere l’unica riconosciuta, sintomo dell’ondata di cancel culture che ha spazzato via la faticosa affermazione della cultura ucraina in queste zone di confine, tradizionalmente a cavallo tra anime che – per quanto simili – fanno della loro cifra distintiva l’aspetto decisivo in questi difficili anni di guerra. O per lo meno, questo è ciò in cui crede fermamente la popolazione di Kiev.
La macchina della repressione. La città di Melitopol, che prima della guerra contava 150mila abitanti, è tra i simboli più cruenti dell’occupazione da parte delle forze russe. Qui, in questo snodo cruciale tra l’area di Zaporizhzhia e la Crimea,i militari hanno messo in piedi una vera e propria macchina della repressione per conseguire l’obiettivo della “russificazione” coatta,con arresti sistematici, passaporti ucraini strappati sotto la minaccia delle armi e una totale revisione dei programmi scolastici, per educare fin da piccoli al Russkiy Mir, il modo di guardare il mondo secondo la visione della Russia. Ma proprio qui, nei territori controllati dall’esercito russo, dove la popolazione è stata forzata a rinnegare la propria cittadinanza e dove sono rispuntati perfino i simboli dell’Urss, compresi monumenti in onore di Stalin, c’è un gruppo di persone particolarmente attivo nella resistenza non violenta. Anzi, un gruppo di donne. Si chiamano “Zla Mavka”, tradotto “Le fate arrabbiate”, e rappresentano uno dei collettivi di resistenza più celebri di tutta l’Ucraina: le loro attività puntano al coinvolgimento della popolazione locale in manifestazioni di dissenso pacifico, lanciando messaggi contro l’occupazione e tenendo viva la cultura nazionale.
Azioni di controinformazione. Le “mavke” operano in clandestinità, consapevoli che esporsi apertamente potrebbe rappresentare un grosso problema per via del controllo russo. Che pure – ed è questo il loro punto di forza – non può nulla contro le manifestazioni di dissenso non violento. L’impegno principale del collettivo consiste in azioni di controinformazione, visto che nei territori sono disponibili soltanto i media russi, con il rischio che l’unica voce che si può ascoltare finisca per diventare non solo la normalità, ma anche la verità. E così, le volenterose componenti del gruppo si occupano di realizzare addirittura un giornale che viene stampato di nascosto e diffuso nei modi più svariati, affisso sui muri, lanciato nei cortili o appoggiato ai bordi delle strade e nei parchi pubblici. All’interno, informazioni sull’andamento del conflitto e testi che ricordano alle persone la loro vera identità: quella ucraina.
Social e fogli di carta. Per aumentare l’eco delle sue azioni, il gruppo si affida anche alle piattaforme social dove condivide vignette in bianco e nero con scene ironiche o tradizionali e fotografie di piccoli fogli di carta sparsi in giro per la città. “La resistenza è diversa, a volte è solo un foglio con poche parole sul muro. Ma basta che qualcuno si fermi, sorrida e si ricordi che non è solo. Sono le cose semplici a dare speranza, e le parole ucraine familiari ricordano alle persone chi sono”, si legge in uno degli ultimi post diffusi su Instagram.
Un’attività collettiva. I piccoli gesti di resistenza, basati sull’informazione, sull’arte e la cultura, hanno permesso al movimento Zla Mavka di espandersi in altre città, da Simferopoli a Zaporizhzhia, allargando le maglie della rete e dando il via a una nuova attività collettiva. Un diario online in cui raccogliere testimonianze in forma anonima, per raccontare com’è vivere nei territori sotto occupazione e quali sono le principali difficoltà che si incontrano nel quotidiano: un modo per tenere accesa l’attenzione su una pagina critica dell’invasione da parte dell’esercito russo, ma anche uno strumento per continuare a far sentire la voce della popolazione ucraina che non desidera altro che tornare a vivere un tempo di pace.
L’emblema della libertà. Parallelamente, negli stessi territori è attivo il movimento del “Nastro giallo”, ispirato alla manifestazione che si svolse a Kherson nel 2022, poco dopo l’occupazione, quando quasi 400 persone sfidarono i militari scendendo per le strade con nastri gialli come lo stemma nazionale e altri simboli ucraini.
Da allora, il drappo ha assunto un significato profondo, emblema di identità e di resistenza non violenta:
in rete gli attivisti invitano le persone a pubblicare foto che mostrano i nastrini gialli nelle città occupate, ma si occupano anche di curare il progetto “Occhi dell’Ucraina” in cui confluiscono tantissime testimonianze – sull’idea dei diari di Zla Mavka – per tenere traccia delle vessazioni che la popolazione è costretta a subire dalle forze russe, dai blackout alle perquisizioni, dai libri di testo epurati dalla storia ucraina e altre azioni di propaganda.
Persecuzioni religiose. Un altro aspetto drammatico dell’occupazione russa riguarda la repressione religiosa. Secondo il ministero degli Esteri ucraino, dall’inizio della guerra fino allo scorso febbraio sono stati uccisi 67 rappresentanti del clero di diverse fedi. Non solo: i dati parlano di almeno 30 religiosi detenuti illegalmente e più di 640 luoghi di culto, comprese 596 chiese cristiane, danneggiati o distrutti dalle forze di Mosca. A completare il triste quadro diffuso dal dicastero, un’ondata di procedimenti penali, perquisizioni, minacce e pressione fisica a danno delle chiese ucraine indipendenti e di altre religioni, tra cui la Chiesa ortodossa autocefala di Kiev, la Chiesa greco-cattolica, la Chiesa cattolica romana, vari gruppi protestanti, i Testimoni di Geova e le comunità musulmane tatare di Crimea, dove l’ultima chiesa ucraina è stata distrutta nell’estate 2024 dopo oltre dieci anni di persecuzioni.
…eppure c’è chi resiste. Nel dicembre 2023 nella regione di Zaporizhzhia le autorità russe hanno emanato un decreto con cui venivano messe al bando tutte le organizzazioni e le comunità religiose, con l’unica eccezione rappresentata dalla Chiesa ortodossa russa. Le motivazioni sono le più svariate, da generiche “violazioni della legislazione sulle organizzazioni religiose della Federazione russa” fino ad accuse più specifiche legate alla presunta induzione dei fedeli alla rivolta contro gli occupanti e al sostegno delle “idee neonaziste”, secondo la classica retorica portata avanti dal Cremlino a danno dell’Ucraina.
Segno che la repressione punta non soltanto a eliminare la presenza delle comunità religiose non allineate al già citato Russkiy Mir, ma anche a intimidire la popolazione nel tentativo di stroncare sul nascere ogni forma di solidarietà e resistenza spirituale.
Le difficoltà delle comunità religiose nei territori occupati, unite alle vessazioni per la popolazione civile privata perfino della propria lingua, contribuiscono alla distruzione del tessuto sociale che alimenta la tragedia silenziosa di una guerra che sembra non voler conoscere fine, che annienta le identità, pretende di riscrivere la storia e colpisce fede, dignità e diritti fondamentali delle persone. Ma i fedeli delle diverse confessioni e comunità religiose non si arrendono: la fede è – per molti e nonostante tutto – un sostegno in questi terribili anni di guerra.