Fatti
Nel cuore pulsante dell’Amazzonia brasiliana vivono 305 popoli indigeni riconosciuti, custodi di una conoscenza millenaria del polmone verde del mondo e del suo equilibrio. Parlano 274 lingue e, secondo i dati ufficiali del Brasile, il 13,8% del territorio del gigante sudamericano è oggi dichiarato “terra indigena”. Purtroppo le sfide per difendere queste terre e chi le abita da latifondisti, interessi di multinazionali e incendi (nel 95% dei casi dolosi) sono tante e all’ordine del giorno, come testimoniano gli oltre 500 missionari cattolici attivi su questo territorio, grande circa quattro volte l’Italia. Suor Sharena Ferrão, missionaria dell’Immacolata nella comunità di Santa Rita do Weill, nella diocesi di Alto Solimões al confine tra Brasile, Colombia e Perù, presta la sua missione con il popolo Tikuna, affrontando le tante sfide legate al traffico di droga e di persone, soprattutto donne e bambini. Il presente degli indigeni che vivono nell’Amazzonia brasiliana è un intreccio complesso di speranze e ferite, di riscatto e di resistenza come testimonia il villaggio di Três Unidos, cuore pulsante del popolo Kambeba, un gruppo etnico originario delle regioni di confine tra il Brasile e i Paesi andini e trasferitosi qui, a circa un’ora e mezza di navigazione sul Rio Negro da Manaus, la capitale dell’Amazzonia.
Un esempio positivo. La comunità di Três Unidos è un esempio positivo di come le tradizioni indigene possano essere preservate e valorizzate. Qui le donne del villaggio gestiscono un ristorante comunitario, il Sumimi, dove vengono serviti piatti preparati con ingredienti locali. L’idea di crearlo è venuta al tuxaua, il capo indigeno, Waldemir Silva, o Triukuxuri, il suo nome nella lingua kambeba. Un’idea appoggiata della Fondazione Amazonas Sostenibile-Fas che promuove il turismo comunitario in questa parte di Brasile.
“Il tempo di tagliare gli alberi per lasciare spazio al campo è passato. Oggi ciò che vogliamo è preparare i nostri figli a studiare e ad aiutare a proteggere la natura”,
spiega a Popoli e Missione Waldemir la cui figlia, Neurilene Cruz, Miskui nella lingua indigena, è un’infermiera che lavora nell’ambulatorio locale, ma cucina anche al Sumimi e rappresenta il suo popolo alla più grande fiera internazionale gastronomica dell’Amazzonia. L’educazione è però la priorità della comunità di Três Unidos dove la scuola locale offre un’istruzione che integra il curriculum ufficiale con l’insegnamento della lingua e delle tradizioni kambeba, con un approccio che rafforza l’identità culturale dei giovani indigeni, preparandoli al contempo ad affrontare le sfide del mondo moderno.
Gruppi criminali e violenze. Se i Kambemba di Três Unidos sono poche centinaia, con oltre 50mila membri i Tikuna sono invece uno dei gruppi indigeni più numerosi del Brasile che vivono nella regione dell’Alto Solimões, il fiume che quando si unisce al Rio Negro forma il Rio delle Amazzoni. Siamo tra le città di Tabatinga e São Paulo de Olivença, in una delle zone più isolate, ricche di biodiversità del gigante sudamericano ma anche più minacciate dall’espansione dei gruppi criminali che trafficano cocaina, oltre a oro e legno estratti in modo illegale.
Tradizionalmente pescatori, agricoltori e artigiani, i Tikuna mantengono una struttura sociale fondata sulla famiglia allargata, ma da tempo affrontano le violenze dei coloni e le minacce economiche ed ambientali alle comunità.
Basti pensare alla tristemente nota Strage di Capacete, quando 14 indigeni di questo popolo furono uccisi da fazendeiros, un massacro che 37 anni fa scosse l’opinione pubblica e fece inserire nella Costituzione del 1988 le leggi di tutela per i popoli indigeni.
Vivere con dignità. Oggi i Tikuna sono protagonisti di un’importante rinascita culturale con scuole bilingui, produzione di libri tradotti, e i giovani laureati che da Manaus tornano alle comunità per lavorare nei settori della sanità e della giustizia. Ma il loro grido d’allarme resta forte, come sottolinea la leader indigena, l’insegnante Luísa Tikuna: “Non vogliamo sopravvivere ma vivere con dignità, con la nostra voce, la nostra lingua e la nostra terra”.
Scuola e cultura tradizionale. Rinascere a scuola, nella lingua della foresta potrebbe essere lo slogan di Maria Utxi, maestra e leader spirituale della sua comunità, situata vicino a Jordão, nello Stato di Acre che confina con la Bolivia.
“La foresta parla nella nostra lingua. La nostra cultura si tramanda nei canti, nei racconti, nei nomi delle piante. Se perdiamo questo, perdiamo noi stessi”,
spiega con al fianco João Kaxinawá, uno studente 16enne che, grazie a un progetto di educazione bilingue introdotto dai missionari comboniani rivela: “Non parlavo quasi portoghese quando sono arrivato alla scuola del villaggio. Ma lì ho imparato a scrivere nella mia lingua e anche nella lingua dei ‘bianchi’”. Oggi ci sono 3.400 scuole nei territori indigeni in Brasile ma per ogni storia di rinascita ce ne sono molte di dolore.
I famigerati garimpeiros. Il popolo Yanomami, al confine con il Venezuela, ha vissuto negli ultimi anni una vera e propria tragedia. Nel 2022 la denuncia di una missionaria laica, suor Giovana M., ha portato all’attenzione pubblica la devastazione causata dall’invasione di minatori illegali d’oro, i famigerati garimpeiros. “Ho visto bambini con la pelle ulcerata, denutriti, donne violentate, interi villaggi contaminati dal mercurio”, ha raccontato suor Giovana in una testimonianza inviata alla Conferenza episcopale brasiliana-Cnbb.
Il monito di Papa Francesco. Grazie alla sua denuncia, le immagini dei corpi scheletrici di bambini Yanomami hanno scosso il mondo e, dal 2023, il nuovo governo del presidente Lula ha avviato interventi sanitari e sgomberi, ma le ferite sono ancora profonde. “È una pulizia etnica a bassa intensità”, denuncia il leader Davi Kopenawa Yanomami, una delle voci più autorevoli del movimento indigeno. “Ci trattano come ostacoli allo sviluppo, ma noi siamo la foresta. Senza di noi, morirà anche lei”, aggiunge. Un concetto ben chiaro che Papa Francesco sottolineò nel 2019 al Sinodo dell’Amazzonia: “Ascoltiamo il grido della terra e il grido dei poveri. Gli indigeni dell’Amazzonia ci ricordano che non siamo padroni della natura, ma parte di essa”. Una frase che riassume bene la visione del compianto Papa che unisce ecologia, giustizia sociale e spiritualità, ma anche un ammonimento per il futuro dell’intera umanità e non solo del polmone verde del mondo e dei suoi abitanti originari.