Idee
Pecunia non olet, dice l’antico adagio latino, ma forse alla puzza purtroppo ci si abitua e questa assuefazione travolge anche i princìpi più nobili. La guerra quotidiana che scandisce il nostro tempo allarga le maglie della tolleranza e anche la finanza etica che pone alla base del suo essere l’esclusione del settore degli armamenti perché contrario ai criteri Esg – Environmental, Social, Governance, ovvero ambientale, sociale e di governance – sta vacillando e le banche italiane si trovano al centro di un dibattito su etica e trasparenza finanziaria. L’idea che sta sempre più prendendo forza è che finanziare il comparto militare equivarrebbe a sostenere la stabilità globale e «se da un lato i fondi con focus su tematiche ambientali, sociali e di governance continuano a escludere le aziende produttrici di armamenti controversi – come mine antiuomo, bombe a grappolo e armi nucleari – dall’altro, in molti casi, hanno cessato di escludere l’intero settore bellico. Alla base di questo cambiamento vi sono, da una parte, le crescenti pressioni governative e, dall’altra, l’attrattiva dei profitti offerti dalle aziende del comparto, in un contesto segnato dall’intensificarsi dei conflitti» si legge in una nota di Etica Sgr. Roberto Grossi, vice direttore generale di Etica Sgr, sottolinea come l’applicazione di criteri Esg ponga in linea generale significativi dubbi sulla compatibilità con l’industria degli armamenti e in particolare si riferisce all’articolo 2 del regolamento europeo Sfdr (Sustainable Finance Disclosure Regulation), il quale stabilisce che un investimento può essere considerato sostenibile solo se contribuisce a un obiettivo ambientale o sociale senza arrecare un danno significativo a nessuno di tali obiettivi. «A nostro modo di vedere, nel caso del comparto militare questo requisito viene strutturalmente meno – sottolinea Grossi – Oltre all’impatto sociale negativo che pensiamo sia oltremodo evidente, anche l’impatto avverso sull’ambiente dell’industria bellica è ampiamente comprovato da evidenze e dati. Per questo è nostra opinione che gli investimenti in società appartenenti al settore degli armamenti non possano essere considerati sostenibili». Parole sante che purtroppo confermano l’unicità di Banca Etica, il solo istituto bancario italiano che non investe nel settore. Il rapporto “Finanza di pace. Finanza di guerra”, presentato l’anno scorso dalla Fondazione Finanza Etica, evidenzia che nel mondo oltre 959 miliardi di dollari vengono destinati dalle istituzioni finanziarie al sostegno della produzione e del commercio di armi e il Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) afferma che nel 2024 la spesa militare mondiale è stata di 2.718 miliardi di dollari, con un aumento del 9,4 per cento rispetto all’anno precedente. Ma evidentemente non basta, visto che a febbraio 2025 è nata la Defence, Security, and Resilience Bank (Dsr) pensata per finanziare la difesa e la sicurezza dei Paesi membri della Nato e dei loro alleati. Ma oltre alle banche e ai produttori di armi, sono molti i settori che operano in contesti di guerra e finanziano, ad esempio, Israele: aziende tecnologiche e logistiche, imprese edili e di costruzione, industrie estrattive e di servizi, fondi pensione, assicurazioni, università, multinazionali del turismo, della moda, del food. Nessun settore è esente. Lo dice chiaramente il rapporto “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio” pubblicato dalla relatrice speciale delle Nazioni unite sui territori palestinesi occupati Francesca Albanese. «Dopo l’ottobre 2023, quando il bilancio della difesa israeliana è raddoppiato e in un momento di calo della domanda, della produzione e della fiducia dei consumatori, una rete internazionale di società ha sostenuto l’economia israeliana – si legge nel rapporto – Blackrock e Vanguard sono tra i maggiori investitori in aziende produttrici di armi che sono il fulcro dell’arsenale genocida di Israele. Le principali banche mondiali hanno sottoscritto i buoni del tesoro israeliani, che hanno finanziato la devastazione, e i più grandi fondi sovrani e pensionistici hanno investito i risparmi pubblici e privati nell’economia genocida, il tutto affermando di rispettare le linee guida etiche». Qualcosa comincia a cambiare e – grazie all’impegno degli studenti che non hanno mai smesso di denunciare e fare pressione – il Senato Accademico dell’Università di Padova ha approvato una mozione nella quale, oltre a condannare le «ripetute violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani compiute dallo Stato di Israele» si impegna a «non intraprendere nuovi accordi istituzionali, né a rinnovare gli accordi in essere, con le istituzioni e gli enti israeliani che contribuiscono al perpetrarsi delle gravissime violazioni del diritto internazionale e al mantenimento dell’occupa zione illegale del Territorio Palestinese». «Questa mozione – commenta Marco Mascia, presidente del Centro di ateneo per i diritti umani “Antonio Papisca” – ribadisce la centralità delle Nazioni Unite e del diritto internazionale per la prevenzione dei conflitti e la soluzione pacifica delle controversie internazionali in un’epoca storica nella quale le istituzioni multilaterali e il diritto internazionale sono sotto attacco. L’alternativa all’Onu è la legge del più forte, il dominio dell’illegalità e dell’impunità, la violazione sistematica dei fondamentali diritti umani, la fine delle libertà e della democrazia, l’anarchia internazionale». La necessità di dire no a un’economia che alimenta e cresce finanziando le guerre è un sentimento che sta crescendo anche tra i consumatori che fanno sempre più attenzione a quello che finisce nel carrello della spesa.

L’Ucraina è diventata l’ottavo Paese al mondo per spesa militare nel 2023, con un aumento del 51 per cento rispetto all’anno precedente raggiungendo i 64,8 miliardi di dollari, pari al 37 per cento del Pil che secondo la Banca Mondiale era pari a 178,76 miliardi di dollari. Inoltre, nel 2023 ha ricevuto 35,7 miliardi in forniture militari da 30 Paesi alleati, di cui 25,4 dagli Usa.