Caro direttore, scrivo con l’intento di sollevare una riflessione pubblica – morale e civile – su ciò che sta accadendo nel mondo universitario, in particolare con il nuovo percorso introdotto per accedere alla facoltà di Medicina. Migliaia di studenti – giovani pieni di speranza – stanno per essere coinvolti in un processo di selezione chiamato “semestre filtro”, strutturato attorno a un test a risposta multipla e molto dispendioso, sia in termini economici che formativi. È stato stimato che le famiglie dovranno affrontare spese fino a 5 mila euro a studente solo per la preparazione, generando un business complessivo di centinaia di milioni di euro. Tutto ciò in un contesto in cui la sanità pubblica soffre una profonda crisi: carenza di personale, tempi d’attesa insostenibili, abbandono dei pronto soccorso. E mentre i giovani sognano una professione al servizio del prossimo, si trovano trattati come consumatori in un sistema che privilegia l’apparenza alla sostanza. Mi domando: che tipo di medici stiamo formando, se nei corsi base come fisica, chimica e biologia non viene nemmeno più prevista un’attività sperimentale? Come comprenderanno un esame clinico se non conoscono il metodo scientifico, la teoria degli errori, la distribuzione gaussiana? Ancor più inquietante è il silenzio di molti accademici e rettori che, pur di non compromettere i propri equilibri interni, non oppongono resistenza a un modello che svilisce la formazione. È una questione di giustizia, oltre che di responsabilità. Nel mio piccolo, ho espresso pubblicamente in sede istituzionale la mia forte contrarietà a questo percorso. Ma sento il dovere – anche come diacono – di dirlo con chiarezza anche nella comunità ecclesiale: la formazione dei giovani è un bene comune, non una merce. Credo che il nostro Paese e la nostra Chiesa debbano interrogarsi profondamente. Non possiamo costruire il futuro sulla precarietà, sull’illusione e sull’iniquità. Occorre il coraggio di fermarsi, riflettere, ascoltare. Mi auguro che questo settimanale, da sempre attento alla dignità delle persone, possa dare spazio a questa voce. Perché, come ricordava il papa a Lisbona ai giovani, «non si viene al mondo per vivacchiare, ma per lasciare un’impronta». Con stima e fraternità,
Marco Laveder
professore di Fisica presso l’Università di Padova e diacono permanente
